L’ANIMA DEL COMMERCIO. RIFLESSIONI SULLE PAROLE USATE PER INDORARE LA PILLOLA di P.P. Roe (Pietro Paolo Capriolo)
Per intanto, comincio col riconoscere che la pubblicità muove grandi quantità di denaro che fanno la fortuna di imprenditori del settore, impegna intelletti esperti in vari campi, coinvolge maestranze specializzate nell’immagine ed è in grado di allettare artisti di vaglia, tanto nel passato (Totò, Mina, Nanni Loy…) come nel presente (G. Clooney, R. Gere, C. Conti…). Quello che sta dietro uno scatto fotografico, una ripresa televisiva o anche solo una battuta è frutto di studio accurato sia per i costi che comporta una campagna e sia per il suo successo immediato e futuro. Un suo prosieguo può divenire una vera e propria serie cui lo spettatore s’è abituato ed un po’ si attende che se ne mantenga lo stile. Uno spunto, un tema possono avere vita anche di anni. Le parole di Nino Manfredi con la tazzina fumante in mano sono divenute proverbiali e ancora s’odono tutt’oggi. Tanto per stare nel contesto del caffè, un altro celebre marchio termina i suoi spot con un’interrogazione in inglese talmente generale ed assertiva che travalica lo stretto ambito e me la son sentita ripetere a pratica assicurativa conclusa (what else? = cos’altro?).
Restando in tema linguistico anglosassone, una scritta imperversa dagli scaffali dei supermercati: tantissimi prodotti, oltre all’assenza dell’olio di palma, vantano d’essere gluten free. Ma intere generazioni, dopo la guerra, sono cresciute con un’alimentazione comprendente le reclamizzatissime pastine glutinate, com’era successo ai bisavoli con le salutari e schifose cucchiaiate di olio di fegato di merluzzo. L’Italia povera ricorreva alle proteine dei cereali ora apprezzate da vegani e vegetariani nel tecnologico sostituto della carne, il seitan. Ancora possiamo immaginarci il bimbo con tanto di apposita maglietta da “plasmoniano” che scambia i suoi biscotti addizionati con polvere di latte dal brevetto britannico con altri italianissimi bambini (ma, in tedesco, Kinder) che gli danno barrette di cioccolato ripiene di latte solidificato sotto lo sguardo compiaciuto degli adulti che magari sorseggiano l’amaro che “digestimola”, secondo una funzione biologica che ne vanta l’efficacia più con la pubblicità che con gli studi clinici.
La simpatica coppia Paulista – Carmencita evoca l’esotica provenienza sudamericana del prodotto; la solidità e la precisione meccanica di un’auto sono garantite dal paese di produzione («è tedesca!»); la soluzione dello spurgo delle tubature sta nella predizione d’intervento come quello che farebbe l’introvabile artigiano (idraulico “liquido”), l’estetica dell’acconciatura proposta blandisce e fa emergere un’autostima riposta («perché io valgo»). Per inciso, confesso che al di fuori del contesto tricofitico, io stesso mi sono avvalso di questa battuta per insistere con i ragazzi impegnati nei calcoli con i decimali affinché badassero a non tralasciare di trascrivere la virgola che, nel volume grafico del numero, ne determina un ben preciso valore. E l’ho fatto conscio di sfruttare una trovata d’intelligenza altrui.
L’intento pubblicitario, a volte, va oltre anche la liceità dell’argomentazione con presupposti scientifici, come avviene nella fantascienza: nella serie televisiva Star Trek, ad esempio, basta assumere per possibile la propulsione a curvatura dello spazio e si può viaggiare fra le galassie. Alla Littizzetto basta la contaminazione del concetto di riproduzione animale con quello della produzione della polvere per farle esclamare «Manco i criceti!», ma in fatto di facile figliazione potevano andare bene anche i conigli, com’ebbe a teorizzare Leonardo Fibonacci nel suo improbabile assunto zootecnico. La polvere nel suo riproporsi in continuazione richiede un rimedio pratico in grado di imprigionarla, proprio come si farebbe con questi roditori, magari visti più come cugini dei ratti che come animali da compagnia.
Un altro simpatico modo di trascendere le nozioni della scienza riguarda la riproduzione cellulare proposta da una nota marca di acqua minerale. Le protagoniste della pubblicità, le cellule appunto, oltre che scambiarsi consigli sul modi di mantenersi in forma, addirittura compaiono talmente umanizzate da restare… incinte! In questo gineceo chiacchierino, una cellula madre richiama e perfino redarguisce il suo cellu-Lino, altre volte, come in ecografia, appare gravida con un altro esserino in placenta, delle cui preferenze idriche si fa interprete lei con il primogenito fuori! Niente di più lontano dalla divisione procariota binaria o dall’eucariota più complessa. Però questo “mendacium” piace e tuttavia dovrà a suo tempo essere smentito nell’apprendimento scolastico.
Voglio soffermarmi ancora su un’altra parziale eresia. Tutti siamo provvisti di un corredo genetico che fa sì che si nasca, si viva e si muoia secondo un programma ben specifico tutt’altro che facile da modificare, come ben sappiamo dalle campagne per sostenere la ricerca sulle malattie genetiche. Come fosse un’illustrazione di un libro, a me piace immaginare un ragazzino seduto su una panchina intento a consumare una salutare merenda casalinga. Sbocconcellando il panino, ne ha dato un pezzetto al suo cane e ne ha sparse alcune briciole per i passeri del parco. Entriamo nel fumetto che si leva dalla sua testa e leggiamone il pensiero: «Com’è che se lo mangio io diventa bambino, se lo mangia Fido diventa cane e se lo fa questo passerotto diventa uccellino?». Interpretiamo il verbo diventare come contributo alla crescita, fornendo energia e materiali. Sostanzialmente il quesito è ben motivato: il pane è il medesimo, ma il soggetto che lo assimila lo elabora poi secondo un suo preciso progetto vitale. Mi si dirà: «E l’eresia della réclame allora dov’è?». Nella proposta di certi cibi, ce ne sarebbero addirittura due. Quando gelati, yogurt e formaggi sono, per così dire, “contro natura” perché il loro ingrediente base non proviene da ghiandole mammarie ma dalla tecnologia che lo “munge” direttamente dai vegetali, si può andare incontro a necessità dietetiche di taluno ed alle convinzioni etiche di altri, si asseconda una moda, si crea una nicchia di mercato e soprattutto si gioca con la nomenclatura, chiamando “latte” il bianco ed acquoso liquido proveniente dalla lavorazione della soia, dell’avena, delle mandorle… Gli Italiani, quando poterono finalmente permetterselo, la piantarono con il surrogato del caffè e del cioccolato e preferirono il prodotto verace, ma chissà perché ora alla dichiarata sofisticazione e di fronte a certe proposte non inorridiscono?
Per decenni, pretese di essere denominata democratica una repubblica in cui metà della popolazione collaborava con la Stasi a spiare l’altra metà. La forza e la propaganda di regime influirono a tenere in auge l’appellativo. Nel nostro contesto alimentare è la pubblicità a barare sul lessico e, ad ulteriore esempio, a chiamare “maionese” quella che non corrisponde all’emulsione stabile di olio con limone/aceto consentita dalla lecitina dell’uovo, secondo la ricetta del cuoco del duca di Richelieu de la Porte improvvisata a Mahon nell’isola di Minorca nel 1757. Ora, in questa salsa alternativa anche il colore è dato da altro: curcuma e senape. Tanto vale allora non chiamarla affatto maionese e propendere per l’innovazione assoluta, magari con liofilizzato degli edibili fiori di borraggine: una bella salsa azzurrognola, importata dalla mensa dei Puffi, come c’è già il gelato! Più che un illecito gastronomico, direi che l’anomalia consista nella licenza lessicale.
Già il principe dei medici antichi, Ippocrate, aveva intuito i vantaggi di una dieta bilanciata e ammonendo che siamo quello che mangiamo, non intendeva alludere ad una sorta di transustanziazione alimento-consumatore. Ovvio che un individuo che introduca molti zuccheri semplici e pochi carboidrati complessi non si trasformerà in barbabietola o canna da zucchero, o in una palla di lardo se assumerà molti grassi di origine animale, ma il suo organismo ne verrà ampiamente danneggiato e camperà una sopravvivenza più che una vita vera e propria.
La valenza del monito, ripetuto da una certa pubblicità, indubbiamente consiste nello spingere alla consapevolezza alimentare, ma andrebbe altresì veicolata in modo da non decadere in una sorta di decalogo nutrizionale talebano. Senza riferimenti a costumi etico- religiosi, ben inteso.