INCONTRO PRESSO UN SARCOFAGO NELLA CATTEDRALE DI PALERMO di Pietro Paolo Capriolo

«Buon giorno, maestà. Non sapendo come rapportarmi con un personaggio di così alto lignaggio, mi scuso in anticipo per i difetti che riscontrerà nel rispettare il cerimoniale».

«Messer Piero, lascia perdere queste formalità. D’altra parte, da un plebeo repubblicano del XXI secolo cosa potrei aspettarmi? Piuttosto, veniamo al fatto: perché mi hai evocata? Da secoli ero immersa nella quieta ombra della morte, ma penso che una sortita nel mondo della luce non mi possa far male».

«Il poeta Catullo descrive una situazione simile come “Nox perpetua dormienda”. Son quindi lieto di offrirle un seppur breve periodo di luce. Non vanto nobili origini, lo ammetto, e sono repubblicano secondo la nostra costituzione».

«Costituzione? Cosa sarebbe questa cosa? Forse una diavoleria legislativa di voi posteri».

«Sarebbe troppo complicato spiegarlo, d’altronde i regnanti hanno sempre avuto difficoltà a concederla al popolo, figuriamoci ai suoi tempi! Dunque, l’ho evocata per un indubbio mio interesse, ma mentirei se mi fregiassi di questa priorità. Molto più, da modesto scritturale qual sono, devo ammettere che è per una sorta di compensazione».

«Non comprendo. Spiegati meglio».

«Sua grazia mi voglia perdonare se la uso un po’ come espediente. Veda: la segretaria dell’Agenzia mi rimproverò di aver intervistato principalmente personaggi maschili. Sì, è vero che ho colloquiato con la cuoca e governante di casa Galvani, con la preistorica Lucy e con la biblica Giuditta, ma pure in questo caso l’interesse non era esclusivo, bensì rivolto anche al generale Oloferne. Dovendo rispettare la quota rosa, ho pensato di raggiungere un equo bilanciamento con il rivolgermi addirittura ad una regina ed imperatrice».

«Quindi per te sarei un ripiego?»

«Mi perdoni, ma c’è anche questa componente. Non posso trascurare i miei interessi professionali di serio intervistatore».

«D’accordo, te lo concedo. D’altronde, la mia avventura politica comincia proprio con un matrimonio di ripiego. Ben inteso: non riparatore, ma puramente dinastico».

«A tal proposito, mi permetta di richiamare i fatti nell’interesse dei lettori…»

«Prima che lo faccia tu, lascia che sia io a ripetere la tiritera che dicevate a scuola: “Se Costanza d’ Altavilla fosse rimasta monachella e non avesse sposato il principe azzurro che poi era anche di pelo rosso…”».

«Ma così un po’ sminuisce la mia documentazione. Però, visto che l’ha anticipata lei, quella scherzosa filastrocca era un espediente per ricordare un preciso momento storico del Sacro Romano Impero. Mettiamo in ordine i fatti. Siamo ai tempi del Barbarossa (da qui il contrasto di colori azzurro-rosso) e sua maestà venne fatta uscire dal convento per convolare a nozze con il figlio dell’imperatore».

«Tanto si ipotizzò e scrisse. Il mio rientro nella vita fuori dal chiostro fu per ragion di stato, non come avvenne per Piccarda Donati che fu presa con la forza».

«Dante vi ha accomunate nel canto III del Paradiso e dice che “le fu tolta di capo l’ombra de le sacre bende” affinché l’ultima erede legittima normanna sposasse Enrico VI generando una discendenza che unificasse il regno di Sicilia con quello di Svevia, secondo la versione dello storico Villani».

«Già, il Villani. Quel galantuomo almeno mi trattò con il dovuto rispetto, non come altri che diffondevano dicerie infamanti».

«Intende quelle che la identificavano con una vecchia monaca, madre dell’Anticristo?» 

«Tutte fandonie! E non è detto che non provenissero proprio da Roma dove l’alleanza fra Normanni e Hohenstaufen non era ben vista».

 «Però, se non proprio qualche fondamento, almeno c’erano dei pretesti: principessa ancora nubile all’età di trentadue anni, finalmente sposa il figlio del Barbarossa e gli partorisce un figlio alla bell’età di quarant’anni. Cosa più che eccezionale a quei tempi, non trova?»

«Non usuale, lo ammetto. C’era di che dubitare ed infatti ci ho posto rimedio. Il suo amico storico Villani mi descrive “grossa di Federico”. Ma che maniera indelicata per dire che ero in dolce attesa!»

«Beh, era il linguaggio del tempo. Le parole gravida e pregna erano forse più appropriate per gli animali. D’altronde se da noi ora è quasi normale che un referto medico riporti la scritta “Primipara attempata” per una neomamma al di sopra dei trent’anni, al suo tempo una gravidanza del genere era qualcosa di eccezionale, se non addirittura sospetta. Non si trattava mica della gravidanza miracolosa della madre di san Giovanni Battista!»

«Voi posteri avete anche una curiosa espressione per definire una donna che deve partorire: dite che è in stato interessante. Ma se ci fai caso, a qualche uomo interessava già da ben prima che rimanesse incinta! Ma torniamo al rimedio che ho messo in atto per allontanare ogni dubbio sulla effettiva mia maternità. Dovresti sapere, sempre dal Villani (il quale però colloca l’evento a Palermo) che ho partorito pubblicamente in un padiglione appositamente predisposto sulla piazza di Iesi e che ho acconsentito alle donne di assistere al travaglio ed alla nascita di Federico nel 1194».

«Così ha allontanato ogni sospetto sulla presunta sua sterilità, a quell’età. La ragion di stato le aveva imposto di lasciare la vita monacale, come poi avvenne per i rampolli di altre casate, ad es. a Maria Luisa di Savoia che sposò Filippo V di Spagna, ma anche a Maria Adelaide figlia di Carlo Emanuele I che fu fatta uscire dal convento per sposare Luigi I di Borbone Condé e a chissà quante altre toccò lo stesso destino…»

«Non solo alle monache. Anche gli uomini potevano essere coinvolti in strategie matrimoniali, come avvenne per i Farnese, i Gonzaga, i Della Rovere…»

«Stringere e consolidare alleanze era una priorità che superava anche le vere vocazioni come ebbe a dire di sua maestà la già citata Piccarda dantesca, garantendo che le fu tolto il velo dal capo, ma non dal cuore. Piuttosto, se non sono troppo indiscreto, come mai Federico II nacque soltanto otto anni dopo il suo matrimonio? Era forse venuta meno – diciamo l’urgenza dinastica – per non parlare della frequenza dei rapporti con l’augusto coniuge?»

«Perdono la tua impertinenza, perché non ti rendi conto pienamente della vicenda storica da me vissuta. Cominciamo con mio suocero che all’età di sessantotto anni non riesce a sottrarsi alla terza crociata, quella detta dei re, in compagnia di Filippo II di Francia e di Riccardo Cuor di Leone d’Inghilterra. E non mi va a morire annegato attraversando un fiume nell’odierna Turchia?»

«Dissero che fu per la pesante armatura. Secondo me, questa è una versione cavalleresca; infatti, poteva benissimo indossarla solo in battaglia e farsela trasportare su un carro. L’altra ipotesi, quella di un improvviso malore nell’acqua gelida, lo renderebbe più vicino ai comuni mortali, ma non sarebbe una morte eroica. Comunque, la sua fine sconvolse i piani dei crociati».

«E anche quelli del mio sposo Enrico VI che, già prima di succedere all’imperatore, reggeva le sorti di Svevia e non sempre era accanto a me».

«Già, con la partenza del Barbarossa per la crociata e la sua morte, anche nel regno di Sicilia c’erano discordia e lotta per il potere».

«Ne parlo per esperienza diretta. Alla morte senza eredi di Guglielmo II, io dovevo essere riconosciuta regina, ma i baroni elessero Tancredi di Lecce, mio nipote e coetaneo, benché illegittimo degli Altavilla».

«Una questione di misoginia?»

«Anche, ma le ragioni principali erano politiche. Tancredi garantiva ai baroni maggior indipendenza, inoltre il nuovo re godeva dell’appoggio di Roma dove, come già detto, non si vedeva di buon occhio un potere che si estendesse dalla Svevia germanica al profondo sud d’Europa».

«E il marito imperatore non venne in suo aiuto?»

«Altroché, ma la flotta pisana sua alleata fu battuta da quella siciliana e le truppe di terra, decimate da una pestilenza, non erano sufficienti. Pensa che fui addirittura fatta prigioniera a Salerno ed inviata come ostaggio al papa che si era offerto come intermediario tra Tancredi ed Enrico. Fortunatamente i miei carcerieri, durante il trasferimento, incapparono in una forte guarnizione sveva e fui liberata. Tre anni dopo, Tancredi muore ed Enrico torna in Italia ed è incoronato re anche della Sicilia».

«Come consorte del sacro romano imperatore, con la Chiesa, come furono i suoi rapporti? Nel caso di Tancredi, sua maestà parte sfavorita e anche le dicerie sulla madre dell’anticristo non la mettono in buona luce».

«Alti e bassi, secondo le leggi della politica, ma senza intaccare la mia fede, come quella volta che volli confessarmi dal predicatore del momento, Gioacchino da Fiore…»

«Maestà, ora lasci che sia io a dare la notizia: “il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato” come l’ebbe a chiamare Dante (Purg. XII, 140) le impose di scendere dal trono quale Maddalena pentita ed invocare il perdono da chi rappresentava Cristo: la regina ed imperatrice obbedì».

«Giusto. Fu un gesto di obbedienza devozionale, per nulla umiliante. Anche con il papato sono riuscita alla fine a mettere a segno un bel colpo. Quando Enrico morì, mio figlio Federico aveva soltanto quattro anni ed io divenni reggente. Riuscii però a porlo sotto la tutela di papa Innocenzo III, garantendo la stabilità del regno. Fu una mossa che garantì al piccolo Federico la successione al trono d’imperatore e di proseguire la dinastia degli Hohenstaufen fusi con il sangue degli Altavilla normanni. E fu la sua fortuna, perché di lì a pochi anni morii anch’io!»

«Ottima mossa! Peccato che, da bisnonna di Corradino, sua grazia abbia poi dovuto, dal regno dell’oltretomba, assistere alla decapitazione dell’ultimo erede degli Svevi sulla piazza di Napoli, per ordine di Carlo d’Angiò che all’epoca godeva del favore d’un altro papa, Clemente IV. Ora però la devo lasciare e grazie per avermi concesso l’intervista ricca di notizie così importanti».

«Eh… Se fossi rimasta monachella, non ti sarebbe capitata tanta fortuna nell’incontrarmi!»

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