DANTE SPEZIALE IN PARADISO di Letizia Gariglio

L’alloro compare subito nel  Paradiso nel Canto  I,13 15, quando  Dante invoca Apollo, il Dio della poesia e dei poeti:

«O buon Apollo, all’ultimo lavoro 

fammi del tuo valore, sì fatto vaso,  

come dimandi a dar  l’amato alloro». 

Nel Canto II del Paradiso Beatrice e Dante giungono nella Luna (I Cielo). È qui che Beatrice fuga i dubbi di Dante sulle macchie lunari e il lettore ha così modo di conoscere la teoria delle influenze celesti.  Viene citata la margherita (II,34 36):

«Per entro sé l’etterna margherita

ne ricevette, com’acqua recede

raggio di luce permanendo unita».

Si serve dell’immagine della margherita  che viene penetrata dal raggio di luce senza distruggerla; allo stesso modo potranno vedere, nel proseguire il loro viaggio, il compenetrarsi della natura umana e divina.

Nel Canto VIII  (139.141) parla delle sementi che, se vengono piantate in luoghi sfavorevoli, non germinano oppure germinano malamente; le paragona alla natura umana la quale, se non viene indirizzata bene, si volge verso il male:

«Sempre natura, se fortuna trova

discorde da sé, com’ogni altra semente

fuor di sua ragion, fa mala prova».

In Paradiso (XII,118-120), troviamo il loglio quando si parla dei Francescani, in un passo molto discusso dai commentatori, ma il cui significato in ogni caso dice che  la famiglia francescana  ai tempi di Dante “va a ritroso”con i costumi, cioè al contrario rispetto alla regola. Poi Dante applica ai dissensi interni dell’ordine francescano la parabola della zizzania; il loglio sta per  la zizzania:

«E tosto si vedrà della ricolta

della mala coltura, quando il loglio 

si lagnerà che l’arca li sia tolta».

In Paradiso parla della rosa (XIII,130 138): dal pruno, infatti, che si presenta  secco e pieno di spine, in primavera sboccerà la rosa. Ecco i suoi versi:

«Non sien le genti, ancor, troppo sicure

a giudicar, sì come quei che stima

le biade in campo prim che sien mature:

ch’io ho veduto tutto il verno prima

lo prun mostrarsi rigido e feroce,

poscia portar la rosa in su la cima;

…»

Nel Paradiso, canto XXII , 85 87 viene citata la quercia.  Dal momento della nascita della quercia fino al momento del suo fruttificare passano circa venti anni: nel testo stanno a identificare un periodo breve.  Le esigenze della «carne», cioè del corpo spingono verso il peccato, e i buoni propositi, dice Dante, durano un tempo molto breve (“dal nascer della quercia al far la ghianda”):

«La carne di mortali è tanto blanda,

che giù non basta, buon cominciamento

dal nascere della quercia al far la ghianda».

Nel Paradiso (XXIII, 70 75) Dante  rimane estatico di fronte al sorriso di Beatrice, che lo sollecita a non perdersi nell’estasi procurata dalla visione del suo volto, e lo invita invece a rivolgere lo sguardo al «bel giardino» dei beati che fiorisce alla luce di Cristo. Lì si trova la rosa che «carne si fece»:  vale a dire la Vergine Maria; lì si trovano i gigli che condussero l’umanità nel cammino della fede: i gigli sono gli Apostoli.

«Perché la faccia mia sì t’innamora,

che tu non rivolgi al bel giardino

che sotto i raggi di Cristo s’infiora?

Quivi è  la rosa in che il verbo divino

carne si fece; quivi sono li gigli

al cui odor si prese il buon cammino».

Nel Canto XXVI  (85-87) dice che la proprietà vitale delle piante è quella di svilupparsi verso l’alto:

«Come la fronda che flette la cima

nel transito del vento, e poi si leva

per la propria virtù che la sublima,

…»

Nel Canto XXVII  dice che la volontà fiorisce nei mortali, ma non dura, perché poi la pioggia trasforma le susine in bozzacchioni pieni di vermi:

« Ben fiorisce nelli uomini il volere;

ma la pioggia continua converte 

in bozzacchioni le susine vere».

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