MEZZO GAUDIO? di Pietro Paolo Capriolo (P: P. Roe)
Assolato pomeriggio agostano di qualche anno fa. Proveniente dalla cintura metropolitana, m’inoltravo per un semideserto viale del capoluogo regionale diretto ad un laboratorio medico per un accertamento di routine. Mentre l’occhio badava al punto di svolta ed a intercettare un eventuale parcheggio in uno spiazzo un po’ ombreggiato, di fronte all’ultima insegna che pareva venirmi incontro, mi domandai quante ne avessi già incontrate di quel tipo. Sceso dall’auto, sorrisi al pensiero di aver confuso la segnaletica delle sotterranee stazioni di metropolitana con il marchio di una nota catena di fast-food. La lettera M era l’unica cosa in comune, ma diversi il colore, il carattere tipografico e ben differente il servizio!
Qualcosa del genere m’è successo di recente, sempre in auto. Accesa la radio, ecco che capto il finale di un’intervista in cui si pronunciava la parola metaverso. Non ebbi modo di capirci granché, perché scattò la sigla finale ed il programma cambiò. Vinta la tentazione di chiedermi, su nemesi di studi classici «Ma non si diceva emistichio?», esclusi si trattasse di verso poetico; comunque il desiderio di scoprire di che si trattasse permase, soprattutto perché cominciò ad essere un incontro non più sporadico.
Succede con alcune espressioni rimaste latenti nel vocabolario di pochi che poi assumono una diffusione quasi virale, anche a sproposito. È noto l’errato uso di piuttosto che ha soppiantato oppure nel suo valore disgiuntivo e quasi perso il valore d’opzione alternativa di anziché. Nell’anno 1982, durante i mondiali di calcio, il grande pubblico dei tifosi (più della Nazionale che del gioco del Football in sé) cominciò a dissertare con vivacità di fuori gioco giungendo finalmente a distinguere questo fallo di posizione dalla rimessa da fuori campo!
Da un po’ abbiamo fraternizzato con l’ossimoro Realtà Virtuale e tanta della nostra attività sociale passa anche attraverso mezzi di comunicazione che, con il potere di avvicinare utenti lontani, allontanano invece persone vicine. Bellissimo l’avviso esposto dal custode di un rifugio alpino: «Qui il Wi-Fi non ce l’abbiamo: parlatevi!». Possiamo ormai considerare nostalgicamente l’icona della busta per indicare l’e-mail e la posta certificata PEC; ora la busta, specialmente al diminutivo bustarella, richiama più un tentativo di corruzione che non un involucro cartaceo di una comunicazione scritta.
Ritornando al termine metaverso, mi pare superfluo l’avvertimento che su vocabolari ed enciclopedie cartacee da qualche anno giacenti in casa è improbabile trovarne traccia, eppure è stato coniato nel 1992, non proprio l’altro ieri. Nasce in un libro di fantascienza di Neal Stephenson dalla combinazione dei termini META ed UNIVERSO per definire una virtuale sfera (pianeta) a cui si approda attraverso Internet con il proprio simulacro avatar in 3D. Breve digressione chiarificatrice: avatar nel sanscrito induista descriveva una incarnazione d’una divinità. Qui non è più un dio, ma un mortale che sceglie di mostrarsi sotto la personificazione voluta. Il subdolo rischio di perfetta estraneità dal mondo vero è più contagioso di un tossico virus.
Praticamente, ognuno può scegliersi l’età, l’aspetto fisico, il genere sessuale e quanto altro gli faccia da corollario per vivere in questo mondo. Apparentemente, perché questa non è vita vera e vi si appare solamente. Il rischio è che si finisca per convincersi di essere davvero quello che si vorrebbe apparire e che questa configurazione abituale soppianti sempre più la personalità dell’individuo, concretizzando le condizioni di uno sdoppiamento di personalità praticamente cercato.
Con gli occhialoni che richiamano quelli dei saldatori ed altri dispositivi tattili (detti aptici, come ho appeso da poco) è però vero che persone affette da handicap motorio/fisico possono vivere sensazioni avventurose e positive che fino a qualche decennio fa erano solo fantascientifiche e che i normodotati possono godere di momenti di svago e di socializzazione sui generis con chissà chi e chissà dove.
Ricorderete che il compianto Piero Angela era solito, verso la fine del programma Super Quark, in orario non più protetto, porre domande sul comportamento sessuale al professor E. Jannini che recentemente (agosto ’22) ha pubblicato su OK salute e benessere un articolo proprio sul metaverso. Egli annuncia implicanze benefiche per il superamento di ostacoli psicofisici e nell’apprendimento, ma altresì denuncia anche possibili rischi di rimanere vittime della rete. Fra i pericoli sessuali dell’universo digitale che egli elenca, due mi paiono particolarmente gravi per la loro valenza in tutto il contesto di frequentazione del mondo digitale, non solo sotto il profilo erotico: l’aumento della solitudine per chi vi accede spesso e la crescente incapacità di discernere fra realtà vera e vita virtuale, cioè rischiare d’essere in un luogo ed in un corpo ma sentirsi altrove ed in un altro.
Combattere con una specie di censura l’avanzata di questa forma di progresso nella comunicazione non è proponibile, a meno di vivere in un paese dal totalizzante controllo su tutte le attività dei cittadini. Mark Zuckerberg, il noto proprietario di social, ha già anticipato i tempi, cambiando nome in Meta a Facebook, ma anche Whatsapp ed Instagram non ne sono immuni, quindi il vecchio adagio sul mal comune, mezzo gaudio potrebbe suonare appropriato.
Ma ritornando al lapsus iniziale, dove il prefisso greco meta (= dopo, oltre, tra…) può essere confuso con metà (dal latino medietas e medius), mi va di immaginare una scenetta sul sagrato d’una chiesa. Il predicatore non doveva aver illustrato abbastanza il significato del termine che avrebbe usato nel suo sermone prima di pronunciare diverse volte la parola metanoia (con accento sulla a e dal significato di mutamento, conversione), perché un fedele gli confidò che la noia –lui– l’aveva provata tutta, ascoltando la predica, e non solo una metà!