AMOR, CH’A NULLO AMATO AMOR PERDONA. DIALOGO IMPOSSIBILE di Letizia Gariglio
- Pubblico qui, nella rubrica “Dante intrigante” un racconto contenuto nel mio libro di racconti “La felicità è momentaneamente occupata”, edito da Nuova Ipsa (Palermo) nel 2016. Il titolo stesso dichiara l’ispirazione giunta direttamente dal poema dantesco, che mi ha spinta a immaginare un dialogo impossibile fra Francesca da Rimini e Cunizza da Romano.
Cunizza: A che cosa devo l’onore, signora, della Vostra visita nelle mie stanze? Siamo coeve, forse addirittura coetanee, tuttavia…
Francesca: Tuttavia… è per l’appunto la ragione di quel tuttavia che mi trova qui.
Cunizza: Voi non dimorate in questi territori, qualcuno m’ha detto…
Francesca: Diciamola tutta: il Maestro mi ha piazzato all’Inferno.
Cunizza: Già! Mi sembrava d’aver sentito.
Francesca: Proprio in ragione della mia collocazione io son venuta a farvi visita. No, non di visita di cortesia fra nobildonne, si tratta; piuttosto d’una visita informativa, forse addirittura formativa potrebbe diventare se Voi avrete la bontà di offrirmi insegnamento.
Cunizza: Come potrò dunque aiutarvi?
Francesca: Ho a lungo riflettuto prima di intraprendere questo mio viaggio per venire a farvi visita, sebbene qualcuno mi dicesse che un ascensore per le stelle sarebbe potuto bastare: in realtà molto di più ho faticato per portare fin qui la mia persona.
Cunizza: Non oso avanzare l’abituale domanda con la quale i cittadini del futuro aprono le loro conversazioni: come state? Nel caso presente avrei il timore che l’espressione suonasse irriverente, sebbene lo stereotipo sia divenuto nel terzo millennio una vuota formula d’approccio.
Francesca: Abbandoniamo ogni maniera di modernismo stantio e formale; atteniamoci ai modi del nostro tempo, quello in cui siamo vissute. Ditemi, Cunizza – sono qui per questo: perché Voi vi trovate in Paradiso mentre io sono all’Inferno?
Cunizza: È difficile a dirsi, né voglio arrogarmi il diritto di sapere.
Francesca: Troppo comodo così. Sono qui per scoprire la verità. Quella che conosco non fa che alimentare il mio tormento. Trascorro i miei giorni nell’amarezza e non posso che attribuire a un errore di giudizio la mia attuale posizione. Sarò sincera: più volte mi sono chiesta se io non dovessi essere al posto Vostro, e Voi al mio.
Cunizza: Ahi ahi, non sono idee da suggerire all’Altissimo!
Francesca: Se io guardo indietro alla mia storia, al tempo in cui ancora ero un’anima incarnata, non intravedo alcuna ragione per aver guadagnato una pena così dura: non fui che vittima!
Cunizza: Ho pena della Vostra sofferenza, cara, ma non conosco ogni particolare. Volete narrarmi la Vostra storia?
Francesca: Una storia da poco. Come molte donne fui maritata appena quindicenne a un uomo che non amavo, di alto lignaggio, ma assai brutto e avanzato nell’età.
Cunizza (interrompendo): Come Vi comprendo, cara. Ebbi una sorte simile alla Vostra. Fui maritata a un uomo che non mi aggradava, non sapeva alimentare il piacere del mio giovane corpo, né soddisfare gli aneliti d’amore che il mio cuore in modo lancinante provava. Ditemi: Voi lasciaste Vostro marito?
Francesca: No, che dite! Rimasi al mio posto, mai venni meno ai miei doveri di sposa, quand’anche dovevo torcere il collo per non vedere il mio orribile coniuge. Voi certo mi capite!
Cunizza: Capisco ciò che volete dire, ma inorridisco. Non fuggiste dal Vostro sposo? Non rispondeste al richiamo della natura? Non ascoltaste la voce dei Vostri sensi?
Francesca (ascolta e guarda Cunizza sbigottita).
Cunizza (proseguendo): Io lo feci. Piantai in asso mio marito, il conte Riccardo di San Bonifacio, signore di Verona, cui ero stata data in sposa per ragioni di stato, e fuggii con Sordello da Goito, trovatore, giovane, bello e ben attrezzato di audaci strumenti musicali, che suonavano alle mie orecchie come flauti incantatori… (scoppia in una gran risata).
Francesca (annaspa e prende fiato).
Cunizza: Con lui trascorsi ore di audace passione, finché, si sa, altri vennero a bussare alla mia porta. La mia generosità mi portò ad aprirla ospitalmente. Accolsi un cavaliere trevigiano di nome Bonio. Lo sposai. Quando Bonio morì (ah, come vivevo bene con lui), sposai Naimerio Ponzio dei conti di Breganze. Quando anche lui morì fui profondamente addolorata, sentii tuttavia che nel mio cuore c’era ancora posto per gli affetti e passai ad altre nozze con un gentiluomo veronese. Non vi racconto dei miei dolcissimi amanti…
Francesca: È proprio ciò che sospettavo. Dunque, Voi foste traditrice, fuggiste dal letto nuziale, vi deste a un bel giovane, poi forse ad altri…
Cunizza: No, non forse: mi diedi a molti altri. Ebbi decine di amanti, e alcuni mariti, figli in abbondanza, e uno stuolo di nipoti, e da tutti fui amata. E io li amai tutti, lasciando che la mia vita trascorresse con gioia, fino a che, attorniata d’amore, invecchiai serena…
Francesca: È proprio questo il punto su cui richiedo chiarimento. Io ebbi un solo marito – ahimè disgustoso – non giunsi mai ad avere un amante e mi trovo all’Inferno nel girone dei lussuriosi. Voi, che per Vostra stessa ammissione non rinunciaste a nessuna relazione amorosa, vi trovate in Paradiso, nel cielo di Venere. Non pensate ci sia un errore? Forse qualcuno avrà scambiato i nostri posti?
Cunizza: Continuate la Vostra storia. Rendetemi edotta.
Francesca: Il matrimonio fra me, Francesca Da Polenta e Gian Ciotto Malatesta, lo zoppo (il nome avrebbe dovuto mettermi in allarme!), fu combinato dalle famiglie per suggellare un’alleanza politica fra i due più potenti gruppi guelfi della Romagna. Io nacqui a Ravenna: “Siede la terra dove nata fui / su la marina dove ‘l Po discende / per aver pace co’ seguaci sui”, scrisse di me Dante. La mia colpa fu di innamorarmi di Paolo Malatesta, mio cognato. Fui condannata da Dante e dalla sua pruriginosa severità teologica a scontare la mia pena nell’Inferno, sebbene l’Autore mi abbia riservato uno sguardo addolcito di umana pietà. Furono i Romantici a riscattare la mia figura facendo di me l’emblema della libertà dell’amore e insieme dell’infelicità dell’amante. Essi mi attribuirono intenzioni e libertà di pensieri di cui mai godetti nella mia vita, e io penso che a causa dell’immagine che essi vollero di me costruire mi sia stata attribuita una pena eterna. Decine di opere letterarie e musicali mi hanno seguita fino a oggi, mio malgrado.
Cunizza: Sciocchezze! Non sono i pensieri degli altri a creare il destino di ciascuno. Esso è in mano nostra, delle nostre scelte. E poi dovreste essere soddisfatta della Vostra notorietà. Mi dite di esservi innamorata di Paolo: una bella cosa. Perché non raggiungeste con lui la felicità?
Francesca: Questo lo spiega bene Dante: “Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse:/ soli eravamo e sanza alcun sospetto… //Quando leggemmo il disïato riso / esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, // la bocca mi basciò tutto tremante./ Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: /quel giorno più non vi leggemmo avante”.
Cunizza: Oh bene, siamo arrivati al punto: posaste il libro e vi dedicaste finalmente all’amore.
Francesca: Ma no! Non è così!
Cunizza: Volete dire allora che proseguiste la lettura in altri giorni successivi?
Francesca (scuote la testa).
Cunizza: Oh mio Dio, volete forse dire che siete stati fatti fuori da Vostro marito lì, su due piedi?
Francesca: No, questo avvenne poco dopo. Voglio dire che rinunciammo per sempre a proseguire nella lettura e nella nostra unione d’amore. Ah, galeotto fu il libro e chi lo scrisse!
Cunizza: Ah, no, signora, mi dispiace. Non potete dare la colpa ai libri se Voi siete stata presa da innamoramento, ma solo a Voi stessa. Ma poi, siete sicura di esservi innamorata? Oppure Vi siete semplicemente identificata con Ginevra, che amava Lancillotto, e Vi siete dimenticata di Voi stessa? Sì, cara, secondo me è questo che Vi è accaduto: Vi siete dimenticata di Voi stessa, chi eravate, dov’eravate, che cosa desideravate veramente e Vi siete proiettata nella storia e nella vita di Ginevra. Così siete stata colta dal desiderio, che in origine non era il Vostro desiderio, ma il suo.
Francesca: Mi ribello a queste stupidaggini! Dovete credermi: non fu colpa mia, la forza dell’amore fu più forte.
Cunizza: Ma bene. Prima era colpa del libro, poi è colpa dell’amore.
Francesca: Sì, sì, dell’amore. Leggete ciò che scrisse Dante: “…Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona”. Fu colpa dell’amore: l’amore, che prese Paolo per il mio corpo, che poi mio marito mi tolse. Colpa dell’amore, che è una forza che non consente di non amare a chi è amato. Amore che ci condusse alla morte. L’amore è una forza che non si può contrastare, è una malattia, un’onda che tutto invade e non puoi fermare, e conduce alla morte. Paolo mi amava e io non potei sottrarmi alla forza del suo amore, ne fui travolta: non fu colpa mia.
Cunizza: Ancora! Non è mai colpa Vostra? Dunque, Voi non foste cosciente mai? Come potete pensare che le cose avvengano al di fuori di Voi? Malgrado Voi stessa? L’amore, l’amore l’amore. Tre volte colpevole, l’amore, nelle terzine di Dante, a causa Vostra. E Voi, che forza attribuite all’amore: una forza che forse dovreste attribuire solo a Dio e alla sua Trinità?
Francesca: Io fui trascinata dall’amore, ma si può forse dire che fui lussuriosa? Non diedi che un bacio, uno solo… un bascio… Voi lo foste, Voi che per Vostra stessa ammissione Vi “deste amabilmente a chiunque con cortesia vi richiedesse”. Non ho ascoltato da Voi una sola parola per sollevarvi dalle vostre colpe, non un accenno di pentimento. E neppure Dante Ve lo attribuì. Però Voi siete in Paradiso, io all’Inferno!
Cunizza: State a vedere che ora troviamo un altro colpevole: Dante. Che tra l’altro, mia cara, fu ben lontano dall’essere teologo pruriginoso. Non pensate, Francesca, che il Maestro abbia corso un gran rischio assegnandomi a uno luogo così elevato, in Paradiso? Non crederete alle fandonie che la Chiesa inventò su di me, sui miei pentimenti: “pentita, si fece suora”, qualcuno proclamò, forse fra gli amici di Dante stesso, per proteggerlo da condanna per eresia. No. Dante sapeva bene quanto la mia biografia non ha mai smentito. Io non ebbi mai pentimenti, né ripensamenti, né vuoti risucchi fra i fuochi della umana sofferenza causata a se stessi per amore. Io non vissi al di fuori di me stessa. Vissi pienamente i miei amori carnali, ma non li sostituii all’amore di Dio. Vissi intensamente e fui felice. Oggi come ieri rispondo pienamente della mia inclinazione a una movimentata vita amorosa. Ciò che oggi sono, lo devo alle mie esperienze d’amore di ieri: non rinnego nulla. Non sono vittima. Non attribuisco colpe ad altri. Ho assunto tutte le responsabilità della mia vita: sono quella che sono. La gioia dell’amore, e carnale e spirituale, mi ha condotta al Terzo Cielo. Non desidero di più: “… qui refulgo / perché mi vinse il lume d’esta stella; / ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia”. Sì, anche oggi sono pienamente soddisfatta della mia situazione. Tornate al Vostro girone, Francesca, e imparate il danno che può produrre ciò che gli uomini del terzo millennio chiameranno il “senso di colpa”: diretto verso altri o verso se stessi, non può che portare alle pene dell’Inferno.
Agli uomini del 2000 piacerà tanto il senso di colpa, loro ameranno ogni impronta, ogni piega, ogni anfratto di ciò che assai scopertamente, senza vergogna, chiameranno “inconscio”. Eppure mai altro nome potrà essere altrettanto chiaro per proclamare giustificazione ai loro atti, compiuti con la coscienza in salamoia, nella brodaglia della non coscienza. Il senso di colpa vi ha condotta all’Inferno… eppure, sappiatelo, non è colpa sua. Siete lussuriosa perché tale vi siete sentita e considerata, amaste malgrado voi stessa, contro di voi, al di fuori di voi. Amaste senza accettare d’essere amante. Prendetene finalmente coscienza.
Prendete infine fra le vostre mani la vostra stessa anima.
Siate anima!