LA GRANDEZZA DELL’UOMO È NEL PENSIERO, DICEVA IDA MAGLI di Letizia Gariglio
La fanciulla Europa venne portata al di qua del canale del Bosforo, in Occidente, con un inganno congegnato dal sommo dio olimpico, Zeus, che sotto le sembianze di splendido toro bianco rapì la ragazza e la condusse sulle onde del mare. Europa (così la chiamiamo personalizzandola) ci sta ripagando con un inganno pari o più grande di quello subito dalla fanciulla ?
All’avvicinarsi del compimento dell’anniversario dalla morte di Ida Magli, (scomparsa nel febbraio 2016) il senso di perdita sembra acuirsi, anziché affievolirsi, forse perché puntualmente, precisamente e drammaticamente tutte le sue previsioni, ad una ad una, si sono avverate o si stanno avverando.
In passato, negli anni ’90, mi sono spesso chiesta se la visione del futuro della maggiore antropologa (e filosofa) del nostro Paese, potesse essere ammorbidita da note di speranza, che pure ciascuno di noi tanto voleva trovare nell’immaginare il futuro. Abbiamo profondamente desiderato che lei si sbagliasse, almeno un po’: io, lo ammetto, l’ho desiderato. Volevamo, disperatamente credere che quello che lei già delineava come il Male fosse – almeno per una volta! – solo il frutto della sua immaginazione. Desideravamo essere ingenui, credere da sciocconi che la storia con sguardo benevolo, come una madre pietosa, potesse sollevare dall’annientamento finale noi, gli italiani, popolo cialtrone e inconsapevole, che però si è sempre sentito una super-entità culturale, soltanto grazie al proprio passato artistico e intellettuale. La Magli ci redarguiva, tentava un ultimo atto di salvataggio da noi stessi: inutilmente! Ci spiegava che un popolo in generale e ciascuno popolo dell’area territoriale europea nello specifico aveva una propria particolare identità di lingua, cultura, arte, letteratura, musica, civiltà: ce l’aveva inscritta nella propria storia, che era la base dell’identità, ma era segnata anche nella loro aspirazione a darsi un modello, una forma particolare del proprio essere popolo. Inorridiva, la Magli, all’idea di unificazione dell’Europa, che definiva «un’idea contraria alla ragione e alla storia». Ce l’aveva a morte con «gli adepti del nuovo dio», coloro che, pur avendo a disposizione i parametri della cultura dei popoli, avevano invece prima scelto e poi imposto, nel trattato di Maastricht, i parametri, firmati dai rappresentanti dei singoli Paesi, di «inflazione», di «tasso d’interesse», di «margini di fluttuazione del sistema monetario», di «deficit annuale» e «debito pubblico»; inorridiva ma non si stupiva che l’Europa voluta dai banchieri rivelasse, anche attraverso l’uso dello sterile linguaggio, la totale indifferenza per i valori umani.
Parlava esplicitamente di «dittatura europea» e invitava gli italiani – e l’ha fatto fino alla fine dei suoi giorni – a rizzare le antenne, a dubitare, a porre attenzione a quello che lei definiva «il peccato originale dell’Unione Europea», vale a dire la mancanza dei popoli nella costruzione del progetto».
Perché nessuno legge il Trattato di Maastricht?, si domandava. Forse la mancanza di «qualsiasi riflesso di umanità ha tolto a chiunque «il desiderio o la forza di leggerlo», e proseguiva: «Questa è stata la sua fortuna: è andato avanti senza ostacoli perché, non avendolo letto, nessuno ha avuto neanche la voglia, la competenza per contestarlo…» E ancora: «…coloro che l’avevano pensato e sottoscritto erano despoti assoluti, non avevano nessun bisogno di riferirsi agli uomini per dettare il proprio disegno e le regole per realizzarlo».
Nelle conferenze, negli interventi, nei documenti, nei libri rincarava la dose sui burocrati dell’unione europea: «(Per loro)tutto il resto non aveva senso né valore: la patria, la lingua, la musica, la poesia, la religione, le emozioni, gli affetti, tutto quello che riguarda gli uomini in quanto uomini, che dà significato e espressione al loro vivere in un determinato luogo, in un determinato gruppo, il loro contemplare un determinato paesaggio, il loro amare, soffrire, godere, creare, veniva ignorato».
Si interrogava, la Magli, sul progetto mondialista, di cui nell’unione dei popoli europei intravedeva uno step. Molti di noi hanno impiegato molto più tempo per capire, nonostante le sue parole. Però negli ultimi anni si è fatto sempre più chiara una confluenza di interessi (una specie di dottrina di base del globalismo) che continuamente spinge verso la costruzione di un mondo globale, del quale, del resto, esistono artefici e costruttori che pubblicamente, per mezzo di discorsi e scritti, hanno parlato dell’argomento nuovo ordine mondiale. Apro una parentesi per citare alcuni esempi fondamentali, per tutti coloro che amano trovare risibile l’idea di un progetto di un Nuovo Ordine Mondiale. Così ricordiamo le parole di Henry Kissinger nel 1992: «…i diritti individuali saranno soppressi di buon grado purché vengano garantiti ordine e pace da parte di un Ordine Mondiale». Sempre nel 1992 il “Time” pubblicava l’articolo “The birth of the Global Nation” di Strobe Talbott, amico di Clinton (suo compagno di stanza all’Università di Oxford), direttore del “Council on Foreign Relations”, nonché membro della Trilaterale: «La nazione diventerà desueta, gli Stati riconosceranno una autorità globale… gli eventi del nostro secolo vanno necessariamente in direzione di un Ordine Mondiale». Nel 1993 Henry Kissinger tornava ad esprimersi in favore di un Nuovo Ordine Mondiale sul “Los Angeles Times”: «Quello che il Congresso dovrà ratificare non è un semplice accordo commerciale, ma l’architettura di un nuovo sistema internazionale, teso a un Nuovo Ordine Mondiale». Nello “Human Development Report” dell’ONU del 1994, sezione “Global Governance for the 21st Century, si dice: «I problemi dell’umanità non possono essere risolti da un governo nazionale, ciò di cui abbiamo bisogno è un Governo Mondiale. Esso può realizzarsi con il rafforzamento del sistema ONU». E David Rockefeller nello stesso anno dirà: «Tutto ciò di cui abbiamo bisogno sono le crisi, la crisi per eccellenza, e le nazioni accetteranno il Nuovo Ordine Mondiale».
Noi uomini comuni, non appartenenti ad élite, nel nostro immaginario di tacchini un po’ instupiditi, spesso identifichiamo come artefici del Nuovo Ordine Mondiale i mostri dei colossi bancari o le piovre delle multinazionali: semplificazioni forse non del tutto corrette, eppure non troppo lontane dal vero. Nonostante qualche guizzo di pensiero originale, le nostre menti impigriscono, cullate dai ritmici tam-tam dei media che con massima abilità ci conducono verso la mancanza di autonomia di pensiero, verso quella concezione di uguaglianza verso la quale gli antropologi come Ida Magli si sono sempre scagliati.
La rinuncia alle nostre specificità, di individui e di cultura, comprese quelle sessuali, religiose sociali e politiche, fa parte dell’avviamento dei popoli e degli individui verso le forme di pensiero globale, configurato su standard e stereotipi eteroforniti, e propinati con molti raffinati sistemi di convincimento. L’obiettivo progressivo è la formazione di un uomo nuovo, omologato su parametri prestabiliti, ben controllati, un uomo pronto a farsi plasmare con duttilità e facilità. In un mondo con caratteri mondialisti si aborriscono sia i popoli sia i singoli individui dall’identità forte, riferibile a forme di riconoscimento nella propria storia, nella tradizione portatrice di valori, in un’etica forte e ben delineata, in grado di proiettare persone e comunità verso aspirazioni e ideali.
Così, mentre la maggior parte di noi voleva credere nel progetto di una Europa salvifica portatrice di benessere, pace, miglioramento, civiltà… la Magli ci avvertiva dei pericoli insiti nel voler riconoscere una identità europea al di sopra delle singole comunità nazionali, che nel corso della loro storia si erano sempre dilaniate e portavano impressa nel loro DNA la memoria storica degli odi e delle guerre. Ci spiegava che l’uguaglianza di significati e costumi annienta la specie umana e l’integrazione (ogni integrazione) avviene con l’assimilazione da parte dei più forti del gruppo culturale più debole. E per più forti non intendeva soltanto i grandi popoli dell’Europa settentrionale e centrale, ma anche le popolazioni islamiche.
La Magli dunque vedeva diffondersi a macchia d’olio l’idea di una Europa unificata, mentre i popoli stanziati sul territorio europeo erano totalmente dimentichi della loro storia, quasi ubriachi nel fare propria quell’idea, arrivata da chissà chi, che improvvisamente la storia non contasse più nulla, non esistesse più. Avvertiva la studiosa che in questo processo era riconoscibile la volontà di cancellare la storia. «Di questo possiamo essere sicuri», scriveva in La Dittatura Europea, «esiste un centro-laboratorio dove intellettuali, storici, linguisti, psicologi lavorano a trasformare il significato della storia». E citava il «ministero della Verità» narrato da Orwell dove vi era chi riscriveva i libri di storia, perché «chi controlla il passato controlla il futuro».
Torniamo per un momento alla visione lucidamente profetica di Orwell. Durante l’interrogatorio di Winston, operato da O’Brien, Grande Fratello di 1984, il prigioniero non ricorda più con precisione la configurazione di alleanze e contrasti tra le grandi tre potenze mondiali che si giocano le sorti della Terra (Eurasia, Estasia, Oceania). Chi era contro chi? Chi il nemico in guerra e chi l’alleato? Il povero Winston aveva buone ragioni per non rammentare. Qualcuno potrebbe obiettare che, per ricordare, libri, giornali e manifesti sarebbero potuti servire a risvegliare la memoria, ma nel caso del nostro distopico romanzo non è così.. Infatti il Socing (il Partito dittatoriale) aveva già provveduto a cancellare e modificare le parole scritte, a correggere la storia in conformità con le nuove esigenze del gruppo di potere al governo e nel frattempo una nuova verità aveva conquistato la memoria e la mente di ogni cittadino, in un perverso gioco di decostruzione e ricostruzione mnemonica.
Questa tecnica di controllo della realtà e delle menti individuali, cui le persone sono sottoposte in Orwell, porta ad una forma estrema di ipocrisia, in grado di spaccare, di dividere in due parti la mente umana inducendola al «bispensiero» o «bipensiero», facendo sì che l’individuo accetti contemporaneamente due realtà contrapposte. Questa è la definizione dell’autore: «capacità di accogliere simultaneamente due opinioni fra loro contrastanti, accogliendole entrambe». Ma perché ciò è necessario? Spiega Orwell: «Solo conciliando gli opposti diviene possibile conservare il potere all’infinito».
Tornando a Ida Magli, e alle sue riflessioni sul bipensiero, è chiaro che lei riteneva che nel progetto di costruzione di quella che tutti iniziavano a chiamare semplicemente «Europa» si manifestasse abbondantemente e in molte forme il bipensiero, ad iniziare dalla presenza di principi desunti da qualunque studio antropologico (che esaltavano le diseguaglianze) insieme a quelli di false uguaglianze propugnate dai nuovi pensatori. E se la prendeva con il politically correct.
Infatti se le masse sono indotte a fare propri giudizi, concetti, idee opposte a quelle che produrrebbero spontaneamente e naturalmente, nel caso fossero libere di formulare idee in libertà, si ottengono due risultati contemporaneamente. Il primo, più immediato, è appunto quello di inculcare pensieri pre-confezionati (contrari alle logiche di coloro cui vengono propinati); il secondo è quello di indurre le masse ad assumere, ad accettare prima e far proprie poi, l’a-logicità del pensiero. Siamo proprio di fronte al modus operandi che Orwell definiva «bipensiero».
Politicamente corretto?, si domandava Ida, e affermava: «costituisce la forma più radicale del lavaggio di cervello che i governanti abbiano mai imposto ai loro sudditi». Spiegava come il meccanismo – un vero e proprio meccanismo di censura – inserisce una distorsione concettuale e praticamente si impadronisce dello strumento naturale di cui la mente umana è dotata per discernere le differenze, attraverso l’imposizione del conformismo linguistico che diviene ideologicamente tiranno. Per mezzo di un conformismo linguistico si veicolano modi condizionanti di percepire fatti, concetti, idee, indirizzate da organismi di potere alla massa, che si allinea in questo modo, a forme di pensiero eterodiretto.
Spiegava la Magli che ogni popolo, ogni cultura dovrebbe trovare nella libertà la forza di esprimersi, di irradiarsi all’esterno, con una propria forma: nel rapporto dialettico con altri modelli culturali, ogni cultura ha la capacità di percepire i pericoli e, quando necessario, ha in sé l’abilità di rigettare gli elementi estranei non compatibili con la propria cultura, in modo esattamente analogico a ciò che fa un corpo biologico, che per mezzo del sistema immunitario rigetta elementi ammorbanti. Se noi invece obblighiamo un popolo a non esprimere, ad accettare, attraverso l’uso del linguaggio, che elementi estranei (e inaccettabili logicamente) si insinuino nel suo sistema culturale, ci avviamo sulla strada dell’estinzione.
È ciò che sta accadendo all’Occidente. E non possiamo che dare ragione alle lucide previsioni di Ida, che per le sue idee rivoluzionarie ha pagato, negli ultimi anni della sua vita, l’indifferenza del mondo accademico, al quale era appartenuta, essendo stata docente di Antropologia all’Università di Roma, e che ha causato l’allontanamento di colleghi ed ex-amici, turbati dalla forza del suo pensiero fuori allineamento. I suoi libri più rivoluzionari furono ignorati, uccisi dal silenzio dei media (ufficiali). Non se ne stupiva. Ma non disperava. Perché, diceva: « la grandezza dell’Uomo è nel pensiero. E c’è sempre almeno un altro uomo che lo afferra e lo trasmette».
Noi desideriamo essere quell’uomo.