IMMAGINAZIONE AL POTERE (LE PAROLE DEL ’68) di Letizia Gariglio
Immaginazione al potere (LE PAROLE DEL ’68) di Letizia Gariglio
«Immaginazione al potere»: una delle più belle espressioni create nel ’68 per il ’68, evocatrice di indipendenza, libero arbitrio, autonomia. Parole poetiche, fantasiose, soprattutto per quella prima parte, riguardante l’immaginazione. Già…. ma poi veniva la parte del potere, che portava con sé luci e ombre. Con la parola “potere” entrava in gioco l’idea della facoltà di fare, in base alla propria volontà, ma contemporaneamente facevano capolino pensieri più pericolosi, insiti nei meccanismi del potere, dove si accompagnano altre azioni, come l’esercizio della forza, la coercizione, la manipolazione. Nel potere c’è sempre qualcuno che influenza un altro, oppure ne è influenzato; vi è chi è in grado di avviare una catena di eventi e chi si trova in essa impigliato, senza facoltà di scelte di cambiamento, chi limita la libertà degli altri, chi ne è limitato. In sostanza, la volontà di coercizione di qualcuno prevale su quella di chi subisce. E per questi ultimi, la parola potere ha un odore assai sinistro.
Dunque siamo nel ’68, e al potere abbiamo messo l’immaginazione. Via la tirannide del raziocinio, l’oppressione della tradizione, il giogo della norma.
Chi lo dice?
Fu Jean-Paul Sartre a coniare l’espressione, usandola in una intervista in cui dialogava, in qualità di intervistatore, con Daniel Cohn-Bendit, giovane scrittore e politico protagonista del maggio francese. «Ciò che è interessante della vostra azione è che mettete l’immaginazione al potere», commentava il filosofo alle affermazioni di Cohn-Bendit, che esaltava, del momento storico che si andava vivendo, il disordine precedente una qualsiasi forma di organizzazione. Il movimento studentesco aveva cominciato a demolire, senza necessariamente progettare l’edificio che intendeva sostituire a quello vecchio. Proprio questo tipo di atteggiamento costituiva motivo di critica nell’opinione pubblica, mentre Cohn-Bendit sosteneva che proprio quel tipo di comportamento (ed il rifiuto di formare un partito) costituiva la «forza del movimento», basato sulla «spontaneità incontrollabile». Certo, perché l’immaginazione, essendo legata alle emozioni, al contrario del raziocinio è ingovernabile e incoercibile, grazie alla sua forza energetica.
Che cosa intendeva Jean Paul Sartre per immaginazione?
L’aveva spiegato in un libro parecchi anni prima, nei volumi “L’imagination” (1936) e “L’imaginaire” (1940). A differenza di tutte le scuole di pensiero che lo avevano preceduto, le quali avevano concepito l’immagine come oggetto, Sartre aveva affermato che l’immagine è un atto di coscienza. Nello studio del filosofo percezione e immaginazione non sono in qualche modo quantificabili, sono incommensurabili; sia la natura della coscienza immaginativa, sia la natura dell’immagine sono ascrivibili all’irreale.
Qualche anno prima del ’68 (nel ’60), si era pubblicato a Grenoble il volume “Les Structures anthropologiques de l’imaginaire”, dell’antropologo studioso di simboli Gilbert Durand. Verrà pubblicato in Italia nel ’69. Anche in quel volume si approfondiva, sebbene su un piano diverso, il concetto di immaginario. Il mondo dell’immaginario era stato relegato a ruolo di dio minore per secoli dalla cultura occidentale, che aveva sminuito e devalorizzato l’attività immaginativa dell’uomo, ponendola su un piano del tutto marginale nella storia. Poco oltre la metà del secolo scorso si era al contrario nella piena affermazione di una “civiltà dell’immagine”, grazie alla pienezza dei progressi tecnologici e dei mezzi di trasmissione. Era proprio il momento in cui si iniziava a constatare un cedimento della “galassia Gutemberg”, vale a dire della stampa, della comunicazione scritta, del patrimonio verbale, sintattico, retorico, in favore dell’immagine, sia mentale sia iconica. In quel momento l’Occidente si trovava a dover in qualche modo correggere quell’ampia frattura che aveva in circa due millenni creato fra comunicazione attraverso la parola e comunicazione attraverso l’immagine.
Fatto sta che nelle manifestazioni di quell’anno, il ’68, non era il caso di andare tanto per il sottile e l’espressione del filosofo Sartre, suggerita nell’articolo intervista comparso su “Le nouvel Observateur”, il 28 maggio 1968, piacque moltissimo ai manifestanti che da quel momento la fecero propria, adottandola come vero e proprio slogan. Era tremendamente evocativa, lasciava spazio a quella dimensione imprecisata in cui si poteva mettere da parte, una volta tanto, la pura razionalità, il costume della tradizione, l’ordine tanto noioso delle regole; si ampliava la linea di confine verso la libertà, verso il nuovo, il diverso. L’immaginazione si muoveva, insieme agli studenti e poi ai lavoratori, come un fiume in piena, che nella sua corsa trascinava ciò che riusciva acchiappare dal mondo regolare, come rifiuto risucchiato dall’onda liberatrice. Così la corrente libertaria non si poneva il problema di darsi un contenimento, né di lasciarsi docilmente dirigere verso direzioni prestabilite: semplicemente si esprimeva come forza dirompente in cui l’unico obiettivo era la condivisione dell’utopia, dell’immaginazione, dell’energia, in grado di rovesciare tutte le cose.