GALVANIZZATO! INCONTRO FANTASTICO di P.P.Roe (Pietro Paolo Capriolo)
Ufficio postale n.02 di Settimo Torinese, in pieno centro storico. Anche il salnitro affiorante da alcuni edifici del circondario denota vetustà mista a leggenda. Prospiciente, la casa disabitata da decenni ora si mostra linda di restauro estetico e consolidata nella struttura. L’occhio è attratto dall’alta gru installata proprio dietro, nel mezzo del cortile invaso da detriti, travi, ferraglia e una miriade di mattoni secolari; residui tutti di una parziale demolizione interrotta per chissà quale inghippo burocratico. Gli occhi di chi si avventura a fare qualche passo nel vicoletto di terra battuta per avere una visione d’insieme dello sventramento edilizio, più che di macerie non registrano immagini. Tutto è fermo da settimane ed anche i macchinari hanno lasciato la negletta gru ad aspettarli svettante nel cielo. Un leggero polverino ogni tanto si alza a qualche brezza del Föhn che riesce ad infiltrarsi fra le case e raggiungere il novello spiazzo disastrato.
Al deserto del vicolo a perpendicolo con la via Mazzini, fa da contraltare sull’opposta sponda della strada asfaltata una piccola folla incolonnata a distanza di sicurezza Covid in sosta presso l’ufficio postale. È gente china sullo smartphone intenta a messaggiare, a cercare di entrare nel servizio prenotazioni, a trastullarsi con giochini per ingannare l’attesa… Anche qui regna uno strano silenzio di rassegnazione, al massimo interrotto dalla voce di chi comunica a trepidanti parenti lontani la propria posizione nella fila. È sabato mattina e nelle famiglie si è scelta la vittima sacrificale per pagare una bolletta, ritirare una raccomandata (pratiche veloci), ma in non pochi sono qui per qualche operazione che richiede più tempo. Di fuori, si vede il tabellone con il numero di ingresso abbinato allo sportello appropriato: la paralisi elettromeccanica pare che a tratti lo assalga e la coda allora si blocca a lungo. Solo un momentaneo sussulto se ci si vede superare da qualche temerario che va unicamente a servirsi del bancomat più avanti.
In questa disavventura ci sono capitato dopo aver per più giorni rimandato il cimento alla vista dell’interminabile fila, ma mi serve l’accesso Spid (Sistema pubblico di identità) alle pratiche I.N.P.S. e devo accreditarmi presso Poste Italiane. Traveggole o no, mi piace abbandonarmi alla fantasia e, dalla toponomastica, faccio un balzo nella storia delle scoperte scientifiche. Il vicolo pieno di buche dalle pozzanghere ormai essiccate è intitolato a Luigi Galvani, ben più onorato nella nativa Bologna con tanto di piazza e statua insigne. Mi sovviene la procedura per ricoprire un metallo con un altro per proteggerlo dalla corruzione e che in suo onore è denominata bagno galvanico o galvanostegia, ma poi mi dico, fra me e me:
«Quello delle rane!»
Una vocina generatasi dentro la mia testa mi controbatte:
«Sì, quello delle rane. Dicono tutti così, ci mancherebbe che proprio lei…»
A partire da una vocina udita da mastro Ciliegia, il grande Collodi ha tratto le meravigliose avventure di Pinocchio. Perché non posso io cavarne l’intrattenimento per vincere la noia dell’attesa? E allora avanti con le presentazioni. Ho davanti la governante, ma sarebbe meglio precisare la cuoca di casa Galvani che mi confida:
«Già, le rane. Croce e delizia del mio signor Luigi. Le chiamava anche “pollo dei miseri” e le raccomandava ai malati poveri, quei pochi che si degnava di visitare, privatamente, per carità cristiana. Come saprà, teneva le lezioni al Teatro di Anatomia e curava la fattura precisa di manichini di cera colorata per gli studenti, gli artisti e quelle altre donne che volevano diventare levatrici. Separatamente, non tutti insieme, andavano alle sue lezioni di ostìcia… come si dice?»
«Ostetricia»
«Bravo, ostetricia. Con manichini e in giorni diversi. Sa cosa pensa la gente no? Va bene il metodo sperimentale, ma non si doveva pensare neanche lontanamente che lì si praticasse anche un po’ di sesso. Di famiglia così religiosa e con uno zio in abiti ecclesiastici poi…»
«Mi scusi, non so nemmeno il suo nome»
«Bice. Per tutti, io sono semplicemente “la Bice”»
«Torno a scusarmi, ma le rane con tutto questo cosa c’entrano?»
«Intanto è per l’atmosfera. Non era mica di quei professoroni sempre con il muso e che alla servitù ci parlano solo per dare ordini. Con i signori Galvani ci avevo una certa confidenza. Quando li sai prendere per la gola, puoi anche non star lì a dire sempre “Signor professore qua, signora padrona là…”»
«Sì, ma le rane?»
«Ci arrivo. Dunque è una questione di dimestichezza. Mai con gli estranei, solo in privato, s’intende. Come quella volta che si lamentò per la zuppa secondo lui un po’ insipida. E io a porgergli il sale perché se la regolasse a suo piacimento. Mi son permessa di aggiungere che al mio errore si rimediava facilmente, non era certo per quello che mi rovinavo la reputazione di tutto rispetto, anche con gli ospiti che facevano venire. Lui era bravo a scorticare e disossare i cadaveri, ma nella mia cucina la regina ero io. In dispensa avevo due dozzine di rane appena portate dal mio Bruno. Gliele misi davanti con aria di sfida. Sua moglie, la signora Lucia buonanima, mi dà corda e propone: “Dai, Luigi, vediamo se la Bice è più brava di te!” Punto sul vivo, dal cesto di vimini col coperchio ne prende per la zampa una e con uno spillone tirato fuori da chissà dove le buca il petto per ammazzarla. Col coltello prova a spellarla, come fosse una pesca! Dopo un po’ di taglietti, la getta sul tavolo invitandomi a dargli lezione. Quella la lascio lì. Ne prendo un’altra ancor viva; quasi carezzandola le stendo le zampe di dietro nella mano sinistra e la tengo ben stretta. Con le forbicione le stacco di netto la testa e il petto fin sotto le zampette davanti. Col dito la svuoto delle interiora. La stendo sul tavolo e le do un taglietto nella schiena. Con le unghie a pinza, via la pelle tirando fino a sfoderarla del tutto e commento: ”Così, signori miei, è come levare le brache bagnate a un bambino che si è pisciato sotto!” La signora ride divertita e ci vuole provare anche lei, riuscendoci perfettamente.»
«Questa è una bella nota di folclore domestico, ma l’influenza scientifica esercitata dalle rane ancora non me l’ha raccontata.»
«E qui veniamo a quella faccenda che ho chiamato croce. Per intanto le dico che una bella frittura nello strutto è stata la degna fine che hanno fatto quelle due dozzine di rane che ci siamo sbafati per festeggiare la mia vittoria: una vera delizia e… a tavola con i signori anch’io! Anche per l’altra faccenda ci va di mezzo il mio Bruno. Tornato dalla pesca in palude con la lampada in una notte senza luna, di rane ne aveva prese… una secchiata! Sul coperchio ci aveva messo un mattone e se n’era andato a dormire lasciandomele nel cortiletto. Dopo pranzo, i signori erano fuori a godersi l’ombra e il sorbetto al caffè -so fare anche quello, sa?- La gatta, invece di farsi lisciare il pelo sulle ginocchia della padrona, girava intorno alla secchia in tutto identica a quella dei rifiuti. Una bella zampata al mattone e un’altra al coperchio. Al rumore, ci voltiamo tutti e dopo un attimo ecco balzare fuori, a decine, tutte quelle rane prigioniere che saltano in tutte le direzioni. Il gatto non sa più quale puntare e balza a caso qua e là anche lui. Risate (loro!) e un bel da fare (mio!) a riprenderle, con imprecazioni al Bruno che non m’aveva avvertita.»
«Un altro quadretto divertente, ma ancora non mi sta parlando di scienze!»
«Caro lei, i presupposti son questi. Mi piace dire “presupposti” come ho sentito tante volte dal professore. Quelle rane mica le potevamo mangiare tutte noialtri! Neanche a contare sull’appetito di mio fratello Bruno. Fu allora che la signora diede una svolta alla storia delle scoperte, perché lo mandò ad invitare il signor Camillo, nipote del marito, e anche Giovanni Aldini, l’altro nipote da parte sua. Tutti e quattro passavano tanti giorni in laboratorio che erano un po’ diventati una famiglia sus génitis.»
«Sui generis, vorrà dire. Sus addirittura vuol dire porco.»
«Eh, forse non mi sono sbagliata di troppo. Quell’Aldini lì, già da giovane, non mi era simpatico. Ma lo sa che per i suoi esperimenti poi andò fino in Inghilterra, e sa perché? Perché da noi, sulla moda francese, ai condannati a morte ci tagliavano la testa. L’ho sentito dire più volte: “Servono cadaveri interi, appena ammazzati!”»
«Ma davvero, l’italiano che si dice facesse muovere i cadaveri degli impiccati e che ispirò a Mary Shelley il famoso Frankenstein era un suo assistente e addirittura nipote?»
«Quel Franco strano che dice lei io non l’ho conosciuto, ma le rane c’entrano eccome. Io le ammazzavo e pulivo, la signora le spellava, sciacquava e sistemava su un panno in una cesta. Il gatto? Chiuso al piano di sopra. Alle sette, arrivano gli ospiti con le mogli. Accendo un bel fuoco di fascine e chiedo alla signora di aiutarmi ad infarinarle e di mettermele su un grosso vassoio da avercele a portata di mano per buttarle nel grasso bollente. Ma, ecco l’imprevisto o, come penserà lei, la variabile scientifica. Erano diventate fredde e alla signora Lucia adesso fanno senso. Allora piglia un forchettone di ottone per girarle nella farina. La prima, la più grossa, le cade nel mezzo del vassoio di rame: cerca di tirarla su col forchettone e sfiora il fondo del piatto. La rana comincia a scalciare. “Oh, oh!” esclama e ci riprova; e di nuovo la rana vuole scappare via. Il fuoco è alto, lo strutto sfrigola e comincia a far fumo. Le dico di usare le mani, di infarinarle subito. Non mi dà retta, sembra incantata e continua a far scattare la rana. Si fanno vicini i nipoti e anche il professore e tutti provano a mettere rane su piatti di rame e a toccarle con posate d’ottone. Non uno che pensi a infarinarle… Lo strutto nella padella va a fuoco e lo devo buttare. Mi giro verso di loro e li minaccio: “Volete mangiare o continuare a giocare?” Sembrano mortificati, ma sono pur sempre i padroni e mi dicono di mettergliene da parte una dozzina in un vaso di coccio, per continuare ancora dopo cena. Preparo tutto io: infarino, friggo, apparecchio, servo in tavola e mentre mangio nel mio cantuccio in cucina ascolto i loro discorsi. Non un complimento né un saporito e sonoro succhiarsi le dita. Sembra che abbiano visto i fantasmi e parlano prima di rane morte, poi solo più di morti, di muscoli, di nervi, di fluido misterioso, del rame dei piatti e dello zinco legato nell’ottone. Come dite ora voi moderni, quelli hanno inventato la cena di lavoro, lasciando a me tutto il lavoro della cena.»
«Dunque, una scoperta per caso, come tante altre e per merito della moglie. Il suo signor Luigi scrisse di un caso fortuito (e questo è vero) capitato ad un suo assistente, ma mi sa che ad assistere pieno di meraviglia quella sera fosse proprio lui! Ma poi come proseguirono gli esperimenti?»
«Non più nella mia cucina! Ma fu una strage di rane e un vero spreco. Una volta, dopo averci pasticciato in tanti, me le riportarono perché le friggessi. Però i signori si trovarono nel piatto un’altra pietanza. “Ma Bice –domandò il professore– com’è che queste rane hanno ossi da lombatine di coniglio?” Risposi che se volevano un buon fritto di rane non mi portassero indietro quelle degli esperimenti, ma che le gettassero ai gatti dei vicoli intorno all’Università. Vuole un consiglio? Le rane andrebbero infarinate appena decapitate e spellate e poi subito buttate nel grasso bollente: olio, burro, strutto. Le dirò che non ho resistito e ci ho provato anch’io a farle muovere da morte. Beh, infarinate però non succede mai!»
«Certo, la farina mista a colla si usò per anni ad isolare i cavi della corrente elettrica. Per questo i topi li rosicchiavano di gusto.»
«Ah, se la signora Lucia non avesse fatto tanto la schizzinosa il povero signor Luigi non avrebbe avuto tanti dispiaceri e polemiche con gli altri studiosi, specialmente con quel mezzo scomunicato di conte di Como.»
«Vuol dire Alessandro Volta? E perché mezzo scomunicato?»
«Perché a quel cattura-papi di Napoleone il giuramento ce lo fece eccome, invece il mio padrone, pio cattolico osservante, no. Lasciò l’Università e furono i suoi assistenti a continuare la polemica col Volta che poi anche con gli Austriaci andò d’accordo… Ora la devo salutare, se non vuole farsi sorpassare nell’entrare nell’ufficio postale.»
E qui deve finire anche il racconto della mia intervista impossibile e mi ritengo fortunato. E se fosse stata la cuoca del Mazzini? In fondo sono sul marciapiede della via a lui dedicata. No, con quell’aria triste da massone rassegnato a vedere l’Italia diventata monarchica a suo dispetto, una cuoca così briosa non l’avrebbe saputa trattenere; prima o poi si sarebbe licenziata lei, di sicuro!