NON SCHERZIAMO CON IL FUOCO. FASCINOSO ELEMENTO PRIMORDIALE E INSIDIA PERSISTENTE di Pietro Paolo Capriolo
Una bella poesia del Pascoli inizia con «C’è una voce nella mia vita…» e, principiando a trattare dell’argomento, non riesco a liberarmi dal poetico modello ed a non fare così a mia volta.
C’è un’immagine nella mia vita che mi ricorda un momento inquietante, ma anche un bell’esempio di mediazione istintivamente compiuto da mia madre. La rivedo china su di me a fugare ogni turbamento ingenerato dall’illustrazione a colori in cui m’ero imbattuto sfogliando un libro del fratello maggiore. L’immagine riproduceva Prometeo incatenato, con il fianco squarciato e ridotto a quotidiana pastura per l’aquila inviata da Zeus a perpetrare quello che al mio ingenuo vedere era un delitto orrendo ed invece il mito classificava come divino castigo.
Ignaro di drammaturgia e degli antichi conflitti etici già materia di Esiodo ed Eschilo, non riuscivo a capacitarmi della sproporzione della condanna, anche se la vicenda giungeva ad un quanto mai sospirato lieto fine. Più che fra i celesti, annoveravo l’adirata suprema divinità fra le creature di un inferno d’infantile concezione da cui uscivano i diavoli, ma anche l’Orco delle favole ed i vari babau a turbare la serenità d’uno scolaretto di per sé già condannato a piangere sulle pagine deamicisiane del libro Cuore. (Ad ogni generazione la sua pena: a noi toccava la frequente eccitazione di lacrimosi sentimenti; a quelle precedenti, generose dosi di olio di fegato di merluzzo!). Quell’immagine e quel mitico dramma aggiungevano toni cupi ed accentuavano l’importanza della scoperta del fuoco già appresa dalle parole della maestra e dalle scarne pagine del sussidiario.
Tento ora una sorta di rivalutazione culturale del fuoco come motore di progresso.
L’accensione a piacimento ed il controllo del fuoco sono requisiti fondamentali e comuni ad ogni civiltà, passata e recente, sotto ogni cielo, dagli impellicciati esquimesi ai seminudi abitanti delle foreste equatoriali.
«Bello et iocundo et robustoso et forte» è la nota descrizione tecnica, scientifica e poetica che tiene conto anche degli aspetti estetici e delle implicazioni psicologiche data dal santo patrono d’Italia e che in sé racchiude più di una motivazione all’irata reazione del re dell’Olimpo quando s’avvide che il fuoco non era più prerogativa esclusiva degli dei. Soprattutto su quel «robustoso et forte» bisogna insistere per far capire alle giovani menti dell’odierna età l’importanza dell’antica scoperta.
«Il fuoco è il grande maestro delle arti», come l’ebbe a definire a sua volta Rabelais nel suo Gargantua e Pantagruel e, per non trascurare le parole dell’eroico titano da cui siamo partiti, Eschilo gli fa dire nel Prometeo incatenato: «Esso riluce da allora fra gli uomini, artefice d’ogni mestiere ingegnoso».
C’è tutto un repertorio di frasi idiomatiche che ne testimoniano l’incidenza culturale e, proprio partendo da alcune di queste, si possono evidenziare le implicanze nei confronti di quello che Eraclito di Efeso (VI sec. a.C.) poneva come primo elemento dell’universo.
C’è un gioco che non solo i bambini fanno per indicare l’esatta ubicazione di un oggetto nascosto. Esso si basa su informazioni verbali che vanno dai due estremi opposti ed antagonisti -acqua e fuoco- con in mezzo un corollario di intensità caloriche (freddo, tiepido, caldo…) e diminutivi vezzeggiativi (fuochino, focherello) utili sensori metaforici per chi effettua la ricerca e si regola così nei suoi spostamenti. Curioso è il fatto che il culmine del gioco coincida anche con il massimo del pericolo, il fuoco, dal quale semmai bisognerebbe allontanarsi, e non cercare di avvicinarsi. Ho provato ad interrogare in proposito alcuni ragazzini, suscitando meraviglia e candide risposte del tipo: «Il gioco è così!», come a dire che i giochi hanno regole che vanno accettate senza discutere e senza cercare di capirle. Nel caso di cui sopra, andare verso il fuoco è ben diverso dall’andare a fuoco e rappresenta un successo in una indagine condotta alla cieca (perché non si sa cosa e dove cercare), come appunto può fare un cieco basandosi solo sulla percezione tattile delle differenti realtà termiche circostanti.
Nel film di Tornatore, Nuovo Cinema Paradiso, si evidenziava bene l’ormai remoto pericolo d’incendio in cabina di proiezione che si correva con le vecchie pellicole esposte alla luce fortissima dell’arco voltaico. Per un momento caliamoci nell’atmosfera buia di una sala cinematografica dove sappiamo possono esplodere improvvise scene di panico: nessuno però si agita se dalla platea s’alza alta la voce «Fuoco» per richiamare l’operatore cinematografico e fargli correggere la proiezione sfocata delle immagini. Da militare ho svolto questa mansione per mesi e qualche volta è stato rivolto pure a me l’invito ad intervenire sull’apparato ottico: è una cosa da nulla con effetto immediato e… sedativo. La differenza di significato tra messa a fuoco ed al fuoco! è talmente codificata che non crea patemi d’animo, anche perché corredata da variazioni sonore distanti fra loro: una è di stizza, l’altra di allarme.
Altroché le odierne slides proiettate su lavagne interattive! Ai miei tempi (ormai lo posso ben dire) a scuola gli audiovisivi consistevano nelle filmine, cioè in spezzoni di diapositive non montate in telaietti, ma da far scorrere attraverso una slitta a pressione, srotolando e riavvolgendo il rullino da sinistra a destra. La voce era quella della maestra e poi fu la mia, quando intrapresi la medesima professione. Una ditta, la L.D.C. più nota come “Filmine don Bosco” aveva previsto addirittura un fotogramma speciale con disegni geometrici e la scritta «A fuoco» per favorirne l’operazione specifica. Leggendola, i miei alunni facevano sempre domande sulla sua mancata pertinenza con il tema della proiezione.
Mettere a fuoco i particolari comporta un progressivo adattamento di ottiche, biologiche o artificiali che siano, e se ne è creato un traslato: l’espressione è passata nel campo della memoria, quando i ricordi affiorano, ed in quello della comprensione, quando da elementi diversi si passa ad un costrutto mentale nuovo e funzionante. Anche la descrizione di ardori sentimentali (Divampare per l’ira, accendersi di passione, bruciare d’amore…) sono modellati su relativamente poco accentuati innalzamenti della temperatura corporea e molto su quelli metaforici della forza gagliarda della fiamma che si agita e consuma. Il “fuoco di Sant’Antonio” è invece una malattia dai lancinanti dolori. La diagnostica popolare abbina il dolore causato dall’herpes zooster al santo che nell’iconografia tradizionale è accompagnato dal porcellino, perché con le applicazioni di lardo egli ne avrebbe trovato un rimedio a quei tempi accettabile.
Uno stereotipo nel disegno delle fiamme è costituito da cerchi o archi di cerchi concentrici a rappresentare la diffusione della luce e del calore che si propagano in ogni direzione. L’asimmetria di queste onde d’urto e la loro parziale duplicazione a tratteggio o con intensità di colore diversa, insieme con l’inclinazione fumigante della fiamma è indice di ulteriore mobilità laterale ed in profondità. La genialità dei disegnatori di fumetti è davvero prodigiosa e concorre anch’essa ad aumentare l’apparente incomprensibilità della dicitura «A fuoco fisso» usata per le macchine fotografiche dal funzionamento semplicissimo, in uso qualche decennio fa.
Abbiamo altre ricorrenti e proverbiali frasi idiomatiche, quali: gettare acqua sul fuoco; non mettere troppa carne al fuoco di immediata e plastica comprensione. Con la terminologia militare invece le cose non stanno così: si va dall’ossimoro para-sacramentale battesimo del fuoco all’imperativo categorico espresso con la semplice parola «Fuoco!», passando per aprire il fuoco, cessare il fuoco, fuoco amico, fuoco incrociato e linea del fuoco. Due parole a commento di quest’ultima espressione. Se con la messa a fuoco si è addivenuti alla comprensione che i raggi convergono in un punto concentrando la luce e la radiazione all’infrarosso fino a far scaturire la fiamma, come la mettiamo con la linea che, nella geometria euclidea, è una successione di punti? Quale strumento ottico è in grado di produrre la linea del fuoco? Non proprio pura allegoria: bisogna trasferirsi sotto la tenda da campo degli strateghi militari che sulle mappe tracciavano appunto le linee che s’incrociavano con i destini di opposti uomini in armi. Dobbiamo l’invenzione linguistica a gallonati geometri nelle vesti delle mitiche Moire!
Lo stesso ordine di «Fuoco!» abbisogna di chiarimenti soprattutto per non pochi bambini. I cartoni animati sono ricchi di scene in cui compaiono candelotti di dinamite con tanto di miccia accesa: il fuoco è ben evidenziato come diretta causa, non soltanto come conseguenza dell’esplosione. Ma perché mai un pargolo cresciuto a virtuali scene a base di candelotti di dinamite dovrebbe abbinare la parola fuoco allo sparo di una pistola o di altra arma a percussione interna di una capsula esplodente? Ci viene in soccorso l’epopea cinematografica dei pirati: qui si vede bene accostare la torcia accesa alle bocche da fuoco (termine traslato dall’anatomia medica, perché vomitano fuoco interiore) con l’intento di incendiare le polveri piriche. Nella concitazione dell’azione, dare fuoco alle polveri si contrasse in «Fuoco !» soltanto.
La passione per la lingua ci ha portati lontano dalla rupe di Prometeo ed è ora di farvi ritorno, giusto in tempo per sentirlo con Eschilo proclamare a suo vanto il furto perpetrato agli dei: «Degli uomini io ho resa compagna la fiamma, una fonte da trarne la scienza di molti mestieri…» a sancire che la nostra civiltà e gli agi a cui siamo abituati dipendono tutti largamente dalla scoperta del fuoco e dai progressivi successi nel suo controllo ed asservimento all’intento produttivo.
La descrizione «Robustoso et forte» è compendio, sintesi ed anticipazione della scienza termodinamica, ma nella sua semplicità anche frutto dell’esperienza quotidiana che in molti campi e per molte applicazioni non è mutata molto dal 1200. Ma oggi, per tanti bambini quella del fuoco è una riscoperta da fare, sotto molti aspetti anche cromatici; si vedano ad esempio i disegni con la fiamma completamente azzurra per influenza della pubblicità del metano e per via dei fornelli di casa.
Ci sono pargoli della scuola dell’infanzia che hanno visto accendere il fuoco della cucina a gas esclusivamente con generatori di scintille, altri che non conoscono i fiammiferi se non per via dei cartoni animati e li confondono con gli accendini da cui siamo sommersi per intraprendenza dei venditori ambulanti. Le candele sono ormai un corollario delle feste di compleanno e molto meno della devozione; le lampade sarebbero addirittura una scorrettezza linguistica («Si chiamano lampadine!» mi ha corretto sottovoce la bimba Letizia) e il fumo è sostanzialmente quello delle sigarette. Con la diffusione dei forni a microonde e delle piastre ad induzione, un fortunato discendente di non fumatori quando farà la sua prima esperienza non drammatica con il fuoco?
C’è da chiedersi se taluni piromani non lo siano diventati per un fascino perverso, da adoratori occulti del fuoco, di quel fenomeno un tempo consueto dal quale la società altamente progredita e tecnologizzata si sta progressivamente allontanando, come in un esorcismo collettivo, salvo ogni estate lamentare colposi disastri ecologici.
Abbinata all’esperienza del fuoco vi è quella di una atavica paura: paura che venga a mancare al momento necessario, ma soprattutto che sfugga ad ogni controllo. Si spiegano così le venerande figure delle vergini vestali in Roma, la pronta, generosa e disinteressata offerta di fuoco allo sconosciuto che per strada domanda: «Scusi, mi fa accendere?», ma anche le infinite raccomandazioni a non trastullarvisi, come anche viene ricordato nel titolo del presente scritto. Al fuoco si riconoscono spiccate virtù purificatrici testimoniate dalla pratica culinaria, dalla disinfezione di strumenti chirurgici, fino a spingersi all’eccitazione folle e collettiva dei linciaggi e dei famigerati roghi delle streghe. Catarsi dunque, ma anche aggregazione e veicolo di comunicazione: i falò festosi degli scout, la componente erotica delle cenette a lume di candela e di preliminari accanto al caminetto (ma c’è stata anche una parentesi di politica del caminetto fra i presidenti Reagan e Gorbaciov), per non dire dell’identificazione con la stessa casa rappresentata con la semplice parola focolare.