L’ENIGMA MATEMATICO di Pietro Paolo Capriolo (P. P. Roe)
Non aspettatevi una proposta di situazione matematica (del tipo: quanto fa?), ma piuttosto l’enigma della proposta matematica, cioè di come la si presenta e di conseguenza quanto la si possa esporre a rifiuto. C’è una parola chiave: perché; un perché bidirezionale. «Perché non capisco?», ansiosamente formulato da parte del discente. «Perché non capiscono?» mai abbastanza approfondito, da parte del docente.
Ognuno si dà la risposta da solo, ma le risposte al di qua della cattedra sono stereotipate: hanno la testa altrove, non si applicano, non studiano, non si esercitano, non hanno voglia… Innegabile che possano anche corrispondere al vero; ma, se davvero è così, la faccenda si può concludere lì? Cosa si può fare per invertire la tendenza?
Al di là della cattedra, dalla parte dei banchi, le risposte sono personalizzate, molto variegate ma anche intrise di sensi di colpa non ben espliciti. Si va a scuola sostanzialmente per imparare a leggere, scrivere e far di conto. Se riesco nei primi due compiti, la mia subconscia deontologia di discente mi rimprovera d’essere per un terzo deficitario. Come s’usa dire nel gergo degli appalti, posso esternalizzare la colpa: non mi piace, come una componente implicita alla materia, quale l’amaro della cicoria o la capsaicina del peperoncino. Si può diventare adulti con una vera avversione per la matematica e questa reazione allergica può sfociare addirittura in vanto di non capirci niente, eppure di poter sopravvivere con questo handicap.
L’ammissione di non capire, assai di frequente, può avere una causa esterna, ricollegabile all’insegnante impaziente, per nulla empatico, che magari non concilia nemmeno varianti terminologiche d’uso comune. A me è stato contestato l’uso di un “quindi” al posto dell’atteso “perciò”. È vero, ammetto a posteriori e di diversi anni, che questo avverbio ha anche una valenza di moto da luogo (Cfr. il dantesco “Quindi uscimmo a riveder le stelle”) oltre che dell’analoga congiunzione tipicamente causale: per hoc. La valenza sinonimica nel parlato era tuttavia più che giustificata, trattandosi di pedissequa lezione da dover apprendere a memoria, ma da recitare senza che sembrasse così. Ingiustificata, continuerò a dirlo, e deontologicamente scorretta, l’interruzione di allora: autentica carognata professionale commessa da una insensibile docente!
Ho usato, volutamente, il termine insensibile, non soltanto con l’intento di sottolineare il tentativo di distrarre lo studente, perché qui c’è sottinteso tutto uno stile molto diffuso di far scuola senza la sensibilità di mettersi nei panni di chi dovrebbe essere aiutato a crescere insieme. Manca la componente maieutica, direi l’istinto genitoriale della mediazione.
Per restare nel tema, nel linguaggio comune c’è un continuo mutuo scambio di espressioni che in matematica non sarebbe tollerato. Ad esempio, dalla tosatura della lana si è passati al termine tosaerba azionato sul prato o sul campo di calcio. L’espressione “sfalcio epidermico facciale” è una chicca semipoetica per indicare la rasatura di un’ispida barba. Va da sé che tutti capiscono ed apprezzano queste varianti linguistiche. In campo matematico non è così; c’è tutta una fraseologia codificata che praticamente non ammette variazioni, pur potendo destare sconcerto. Altre volte invece indica una procedura che non è identica dappertutto. Ecco un esempio molto facile.
Tutti noi ricordiamo le tecniche di calcolo apprese nella scuola primaria e c’è un modo di dire nel praticare la sottrazione che si riferisce alla prassi del cosiddetto “prestito”.
Dovendo, ad esempio, fare 53 – 17, ai bambini si fa fare un ragionamento (che ce lo sogneremmo in banca!) dove, senza nulla dare in garanzia, le tre unità vanno a chiedere al cinque una decina per diventare 13 da cui poter sottrarre il 7. Così il 5 si impoverisce e bisogna tenerne conto nella colonna a fianco per effettuare il passaggio successivo, cioè 4 – 1. Che 53 – 17 faccia 36 è un dato incontrovertibile, ma eticamente fraudolento! Quando mai quella decina verrà restituita? Si dirà che è una tiritera per facilitare l’apprendimento e che quella decina (magari rappresentata sull’abaco con una pallina rossa) è stata cambiata in 10 unità (sempre sull’abaco, aggiunte come palline blu alle precedenti 3, in modo da averne 13. Ma la didattica è uguale dappertutto?
Nella vicina Francia ostentano onestà nella tecnica di calcolo. Ad esempio, dovendo fare 465 – 286 = 179, procedono diversamente da noi. Il prestito c’è, ma viene restituito! Quindici meno sei = nove come da noi, ma poi ecco la diversità: quell’uno prestato va aggiunto all’otto del sottraendo (“un de retenue plus huit” cioè, una vera e propria restituzione) che lo trasforma in nove, poi si procede come prima con tanto di prestito in modo da avere sedici meno nove = sette e, di nuovo, si restituisce l’uno (questa volta è un centinaio) che trasforma il duecento in trecento o, se non badiamo al valore posizionale, il due in semplice tre; quattro meno tre = uno. Oltralpe, c’è come una danza fra il piano grafico del sottraendo e quello del minuendo che a noi pare rendere la procedura più complessa. Ad essere troppo onesti a volte ci si complica la vita! A noi poi suona parecchio strano che, in inglese, trimestre si dica quarte, ma dev’essere perché nella mentalità d’oltremanica l’idea di frazione (un quarto di anno) prevale sul risultato dell’accorpamento di tre mesi.
Ci sono poi episodi che non esito a definire maniacali. All’inizio d’anno scolastico, abbiamo un po’ tutti fatto l’esperienza con una schiera di docenti di passaggio che consumavano energie nel farci apprendere a rotazione e discrezione tutta personale quella che doveva essere l’esatta dicitura di: due terzi, due su tre, due fratto tre; un mezzo, una metà, uno su due, uno fratto due; n. elevato alla seconda o al quadrato, ecc…
Quando facciamo uso di Excel® o di analogo programma di calcolo, se non ricorriamo a specifiche formule preconfezionate (nel Web si trovano facilmente ad uso gratuito) e siamo presi dalla presunzione di crearle noi direttamente, può accaderci di ricevere l’avvertimento di aver commesso un errore di sintassi. Questa parola, le prime volte, ci pare totalmente estranea al contesto, perché la colleghiamo all’espressione linguistica orale e scritta. Eppure, il messaggio è fondamentalmente corretto: possiamo aver sbagliato a digitare il giusto verso di una parentesi, dimenticato un segno di interpunzione… «Quisquiglie e pinzillacchere!» direbbe Totò; invece, sono particolari importanti nella funzione di calcolo.
Nel parlato e nello scritto, abbiamo vari casi di costrutti in cui gli elementi non concordano (tecnicamente son detti anacoluti). Forse, il più famoso ai giorni nostri è: «Io, speriamo che me la cavo» che è l’omonimo titolo del libro di Marcello D’Orta e del film di Lina Wertmüller. Già il Manzoni faceva uso di anacolut, ad esempio nella famosa scusa di don Abbondio: «Il coraggio, uno non se lo può dare!». Chi legge o ascolta avverte la discordanza, tuttavia ne comprende il significato ed addirittura l’apprezza, perché serve volutamente a caratterizzare la situazione. Nei casi citati emergono la speranza in una vita migliore per lo scolaretto nient’affatto rassegnato ad un gramo destino e nel curato di campagna una persistente dose di pavida ignavia e di mancata assunzione di responsabilità.
Sempre a riguardo delle prime esperienze nell’apprendimento logico matematico, mi va di fare una osservazione che non è del tutto peregrina, perché riguarda il modo di proporre un quesito.
Dopo pagine di esercizi di calcolo e una bella dose (forse venti o trenta?) di facili problemini basati sull’addizione e sulla sottrazione, con tanto di lettura e declamazione delle parole con potere straordinario più e meno, un marmocchio mediamente attento e diligente eseguirà l’addizione anche quando incontrerà la sibillina domanda: «Quanto costa ora di più?» (o una delle molte varianti: più lungo, più pesante, più vecchio…). Deluderà la sua maestra vanificandone le doti recitative e gettando al vento l’esperienza accumulata in tutti gli esercizi precedenti? No: farà “la più”, cioè l’addizione, sbagliando sonoramente. In questa età di candida innocenza, è da sospettare di devianza chi pratica invece la sottrazione, eppure la ragione è dalla sua parte! Un avvertimento alla maestra di turno: lodi l’alunno fuori dal coro per il risultato, ma se ne guardi negli anni a seguire. Infatti, potrebbe divenire un insensibile esecutore di procedure e, da adulto, capacissimo di affibbiare ad un’incauta nonnina una rischiosa proposta di investimento assicurativo/bancario per suoi privati motivi di budget aziendale.
C’è una valenza matematica di fondo, non visibile immediatamente: non siamo abituati a pensare i numeri come entità relative e per di più stentiamo, soprattutto da piccoli, ad introdurre la dimensione del tempo nelle soluzioni problematiche.
Cerchiamo allora con esempi plastici di rendere meglio questi due concetti.
Immaginiamo il numero come una banconota mentre transita dalla mano dell’acquirente a quella dell’esercente: da positivo capitale del primo, diventa positivo incasso del secondo, ma – ipso facto – il cliente ha meno soldi e la cassa del negoziante è meno vuota. La banconota è elemento neutro: è sempre la stessa, ma cambia il detentore. Gli elementari problemi con il segno + ed il segno — dovrebbero essere imbanditi a coppie antagoniste. Per stare ancora in questo linguaggio figurato, immaginiamoci il mondo dei valori costituito come da due vasche d’acquario comunicanti in cui i pesci vanno e vengono facendo variare il numero in entrambi i contenitori. I pesci però li scorgo varcare un confine, la banconota la vedo passare di mano, ma come posso rappresentarmi il volatile aumento del prezzo della benzina? Intanto, perché un importo aumenta o diminuisce? Di solito, in base alla richiesta e alla disponibilità, poi ci sono le imposte… Se per fare il pieno di carburante, ieri occorrevano 50 € ed oggi ce ne vogliono 52, i casi possibili sono diversi: il prezzo di ieri era minore, il mio denaro si è deprezzato o, per assurdo, la capacità del serbatoio è aumentata.
Posso immaginare allora che da una vasca si debba far affluire all’altra un maggior numero di pesci a rappresentare gli euro occorrenti. Di fatto, spendendo di più per la benzina, avrò meno disponibilità di denaro per altri acquisti. Finora abbiamo descritto i fatti mentre avvenivano, cioè da dove si prendono i denari ed i pesci a loro simbolo. Per descrivere l’aumento devo però fermare la scena e scattare mentalmente un fotogramma nella condizione prima ed un altro nella condizione dopo. Nella nostra similitudine, posso infittire i pesci nel contenitore che rimane immutato. Nella realtà, oltre un certo limite vitale non si può andare e variare il rapporto esseri viventi/ambiente non è più possibile: il vantaggio di operare con numeri astratti è che questi non si lamentano mai. La variazione, la differenza fra i due fotogrammi, è di due pesciolini, o di 2 € nell’esempio del prezzo della benzina. Fin qui, un modello di cronistoria di una vicenda di prezzi che sono sempre una cosa un po’ misteriosa.
Poco alla volta, potrà anche diventare ininfluente usare espressioni quali più lungo, più corto purché affiancate dai loro reciproci meno corto, meno lungo. Da ex docente che si sforzava di trascorrere molto tempo al di là della cattedra, ai giovani insegnanti, a genitori e nonni che seguono i bambini nei compiti domestici consiglio di compiere manipolazioni reali, di usare bastoncini per spiedini e stuzzicadenti, grissini… Per determinare la differenza, si accostano i due termini e del grissino si spezza quello lungo là dove finisce quello corto, dalla striscia lunga di carta si asporta la parte eccedente. Ricordo di aver fatto un gioco che, divertendo, mette in evidenza l’enormità dell’errore che non risalta invece con i numeri di per sé muti sulle conseguenze. Esemplificando l’errore dell’addizione al posto della sottrazione, si fa salire un bimbo sulle spalle dell’adulto, costituendo così un mostro a due teste. Nel proporre la soluzione giusta, si accosta il piccolo all’adulto che dovrebbe essere “segato” ad un certo punto della sua statura per asportarne la differenza. Anche qui la trovata scherzosa serve a fissare nella mente una nozione basilare, dopodiché si passa alla formalizzazione simbolica con disegni ed alla prova in corpore vili, ad esempio con sagome di carta da sacrificare veramente. Questa è operazione corretta e non aleatoria, basata su materiale concreto che non dà adito ad enigmi suscitati da sonorità illusorie e si ha sott’occhio la decrescita del minuendo. Ludendo discitur, ma quanti sono gli insegnanti che hanno voglia di dedicarsi a questo “perder tempo”?
La sintassi della lingua la pratichiamo inconsapevolmente di continuo, quella matematica molto di rado e dobbiamo calarci appositamente in una dimensione che per molti aspetti non dico che ci sia aliena, ma meno connaturale, meno abitudinaria.
Ad alti livelli poi la matematica può diventare veramente ostica e, secondo Günter M. Ziegler, già presidente della Società Matematica Tedesca, «difficile, purtroppo: roba da eroi.» [In: Diamo i numeri? Storie dal mondo della matematica, Orme Editori s.r.l. Roma, 2011]
Ma allora, proprio per questo, perché la matematica dovrebbe essere insegnata prevalentemente con sistemi didattici “teutonici” da insegnanti poco empatici e scarsamente comprensivi delle difficoltà che incontrano gli studenti?