VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA racconto di Letizia Gariglio (Quarta Parte)
Quando si rese conto di essere giunto sulle sponde della terra vicina, era senza parole. Tuttavia:
«Non sono morto», disse fra sé e sé. «Come sono stato fortunato. Forse una mano amica mi ha guidato. E eccomi qui, in questa nuova terra, dove sono arrivato come fossi un re: la chiamerò proprio così. La chiamerò RE», decise, «Mi metterò subito al lavoro. Voglio scoprire tutte le differenze che dividono RE da DO».
Questa volta fu davvero meticoloso nell’esplorazione: prima l’esplorò tutta in verticale, poi tutta in orizzontale. Finché giunse alla conclusione che non si poteva davvero trovare nessuna differenza dalla terra che aveva abitato in precedenza. Persino la collina che si profilava alle spalle di RE era identica, alla vista, a quella che stava alle spalle di DO. Solo un dubbio sopravvenne in lui: risuonavano allo stesso modo? Anche le mura di RE avrebbero potuto crollare al suono di quel trombone del ragazzino zuccheroso? Dopo l’esperienza che aveva vissuto non era troppo tranquillo: si sentiva in balia degli eventi: aveva compreso che non avrebbe potuto controllare, se non in parte, gli accadimenti del destino. E se avesse fatto le scelte sbagliate? Se non avesse potuto affatto fare delle scelte, ma qualche legge superiore avesse condotto la sua vita.
Oh, santo cielo, che cosa era questo strepito?
Il ragazzino era stato acciuffato da sua madre per le orecchie e sbattuto davanti al continente che con ogni evidenza doveva contenere le sue terre. Il ragazzino si ribellava con strepiti e lamenti agli ordini di sua madre, la madre da parte sua urlava; il ragazzino urlando piagnucolava; a un certo punto mollò dal naso una specie di uragano i cui venti soffiavano ai trecento chilometri all’ora. Quarantamila goccioline microscopiche si liberarono nell’aria e caddero pesantemente verso il basso, come fossero attratte da una forza che le richiamava verso il centro della sua terra. A Carlo parvero piovere tutte su di lui e ciò confermò la sua idea che lui dovesse proprio trovarsi al centro del mondo. La forza dell’uragano non aveva ancora terminato la sua azione che una nuova, forse più tremenda ondata di goccioline, spinte da terribili venti, tornarono a inondare Carlo il tarlo. Colpì testa, zampe … e ali.
Fu così che, nel bel mezzo di un disastro ecologico, Carlo scoprì che aveva pure un paio di ali. Si trovò catapultato dalla forza dell’uragano sulla nera piattaforma vicina; trattenne le ali presso il corpo, cercando di farle aderire come meglio poteva ai suoi fianchi, compì una serie di capovolte in direzioni diverse, senza poter rendersi conto di ciò che stava accadendo. Nel frattempo l’uragano Katrina si calmò, al ragazzino venne consegnato un fazzoletto con l’ordine di usarlo, le voci si acquietarono; quando tutto sembrò a posto, le forze della natura sembrarono sedate, almeno momentaneamente, lui prese un profondo respiro e capì di essersi assestato su una nuova piattaforma bianca.
«Mìììì», articolò il ragazzino-uragano, sempre nei paraggi, «Mììì». Il mugugno non dispiacque a Carlo il Tarlo; prontamente la nuova terra fu chiamata MI.
Quanto alle ali: che cosa se ne sarebbe fatto ora?
Dovette presto rendersi conto che quelle ali non erano proprio ali: non servivano per volare. A questa conclusione tuttavia non poté arrivare se non dopo svariati tentativi di usarle a quello scopo. Fu duro rassegnarsi, ma alla fine dovette convenire con se stesso che quelle protuberanze non potevano servire per spiccare il volo. Avrebbe tanto voluto possedere l’ariosità di un uccello, spaziare nei cieli, passare di piattaforma in piattaforma superando, sostenuto dall’aria, le voragini che lo insidiavano. Ma non era così.
«Queste ali sono dure e pesanti come pietre», dovette ammettere con se stesso, «non servirebbero a alzare in volo nemmeno una di quelle goccioline piene di batteri che il porcellino mi ha scaricato addosso. Non posso illudermi che possano costituire per me un aiuto per fuggire in fretta, né per esplorare dall’alto. Peccato!» Era molto seccato. Ma nello stesso tempo voleva trovare una ragione per quelle finte ali:
«Vedremo se riuscirò a farmene qualcosa. Non è possibile che la natura me le abbia messe qui solo perché mi procurino fastidi, ci deve pur essere una ragione».